Dalla nostra inviata

Il piano che lascia Hamas al suo posto e che Sinwar può rifiutare

Micol Flammini

Si può chiamare “piano Bibi” o “piano Biden”, resta il fatto che Israele  ha formulato una proposta ideale per  il gruppo terroristico. La pressione internazionale, il Libano, i quattro ostaggi uccisi a Gaza

Tel Aviv, dalla nostra inviata. Non c’è scelta senza costi in Israele, non c’è decisione senza il dilemma: prima gli ostaggi o prima la sicurezza del paese? Tutto va al di là dei calcoli politici, della volontà del premier Benjamin Netanyahu di rimanere attaccato ai suoi alleati problematici di estrema destra – il ministro della Sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir, e il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich – e riguarda piuttosto come il paese  si è trovato nella necessità di fare una proposta di accordo rischiosa per vedere tornare gli oltre centoventi israeliani rapiti il 7 ottobre e concedere il cessate il fuoco dentro alla Striscia di Gaza, secondo un piano che è stato descritto dal presidente americano Joe Biden venerdì sera e che ha seguito a  una proposta israeliana. Nonostante le rettifiche di Netanyahu, israeliana la proposta lo è davvero: due settimane fa, dopo la pubblicazione del video che mostrava il rapimento delle ragazze dalla base di Nir Oz, sanguinanti, con le mani legate, trascinate dai terroristi di Hamas verso le jeep dirette a Gaza, era stato proprio  il premier a dare alla squadra di mediatori israeliani il mandato di formulare una nuova proposta di accordo, prendendo in considerazione di assecondare molte delle richieste di Hamas. I negoziatori aveva portato la proposta al gabinetto di guerra, in cui Netanyahu siede assieme a un gruppo ristretto di ministri: tutti avevano accettato la nuova proposta, anche il ministro degli Affari strategici Ron Dermer, stretto collaboratore del premier, di rado contrario alle sue posizioni.

 

Tutti, il premier per ultimo, avevano accettato, ma la proposta prima di essere condivisa con il resto del governo  è stata mandata agli Stati Uniti, ai mediatori egiziani e qatarini e anche a Hamas. Prima di tenere il suo discorso, Biden non aveva raccontato  fino a che punto avrebbe delineato il piano, neppure l’ambasciatore israeliano a Washington, Michael Herzog,  sapeva quanto oltre si sarebbe spinto Biden. Il capo della Casa Bianca aveva deciso di andare davanti alle telecamere e raccontare di un piano in tre fasi che gradualmente porterebbe alla liberazione di tutti gli ostaggi e al cessate il fuoco permanente nella Striscia di Gaza. Un piano costoso per Israele che di fatto accetta tutte le condizioni di Hamas tranne una: il cessate il fuoco permanente immediato. Secondo la proposta israeliana la prima tregua dovrebbe durare sei settimane. Le proposte sono sempre soggette a interpretazioni, non sono accordi fatti e firmati, servono a far ripartire le trattative, per questo e non soltanto per motivi di politica interna, dopo l’annuncio di Biden, Netanyahu ha precisato che ci sono differenze tra il piano raccontato da Washington e quello delineato in Israele. “Biden ha collegato il cessate il fuoco temporaneo della prima fase a quello permanente della  seconda, dando un forte segnale della fine della guerra, ed è un dettaglio non piccolo”, ha detto al Foglio Nahum Barnea.  

 


Barnea è un giornalista dello Yedioth Ahronoth, una leggenda del giornalismo israeliano ed è convinto che non ci sia trucco nella decisione di Biden di parlare per primo della proposta israeliana che le famiglie degli ostaggi chiamano “piano Netanyahu”, ribadendo la paternità dell’iniziativa del premier che non può rinnegare quanto già ha accettato. “Netanyahu ha chiarito le differenze su questo punto”. Per Biden durante le sei settimane di tregua bisognerà negoziare la seconda fase e se la seconda fase non verrà raggiunta, il cessate il fuoco verrà esteso. Questo rischia di mettere Hamas nelle condizioni di  ritardare la liberazione degli ostaggi, legando Israele alla minaccia di non rivederli più. Ieri Netanyahu ha detto che i negoziati per la seconda fase cominceranno entro il sedicesimo giorno di tregua e se Israele avrà prove del fatto che Hamas sta costringendo i mediatori a discorsi infruttuosi allora i combattimenti riprenderanno. Secondo Barnea, “Biden non fa pressione su Israele, ma su tutti gli altri: su  Hamas che comunque ancora non si è seduto al tavolo dei negoziati, e su Qatar ed Egitto affinché a loro volta ottengano un accordo serio da Hamas”. 

 

La politica israeliana è litigiosa di natura, per costituzione, e in tempo di guerra, con il paese dilaniato da una scelta tanto difficile, le ossessioni politiche di una maggioranza che ha poco in comune, non aiutano. I sondaggi dicono che Netanyahu sta recuperando consensi e forse deve temere le elezioni meno di qualche mese fa. Se il governo cadesse, con Smotrich e Ben-Gvir pronti a togliergli il sostegno perché contrari alla proposta di accordo, il premier avrebbe già pronta una nuova maggioranza, costituita dall’ex capo di stato maggiore già nel gabinetto di guerra, Benny Gantz, dal leader del partito Yesh Atid, Yair Lapid, dal suo ex ministro Gideon Sa’ar, e dall’eterno alleato-rivale Avigdor Lieberman, che da anni è pronto a creare e distruggere i governi di Bibi. Questo paracadute politico costituito da rivali acerrimi del premier si è messo a disposizione con una richiesta: elezioni anticipate, ma non immediate. Prima c’è da risolvere il dramma del paese, la situazione a Gaza e la guerra a nord, dove i combattimenti con Hezbollah stanno aumentando, sono furiosi, alcuni dei villaggi ormai evacuati sono circondati dalle fiamme. Israele ha sette fronti da guardare, difficile concentrarsi soltanto su Gaza, ma il pensiero comune dei Gantz, dei Lapid e dei Sa’ar è che non può risolverli sotto tanta pressione. “Non esiste una decisione semplice – ripete Barnea – gli israeliani vogliono il ritorno degli ostaggi e l’eliminazione di Hamas, la domanda è quale obiettivo viene prima? I sondaggi dicono che prima vengono gli ostaggi e non c’è consolazione perché per vederli liberi scarcereremo terroristi che torneranno a Gaza o in Cisgiordania”. Le parole di Barnea indicano la consapevolezza che Israele farà uscire dalle sue prigioni minacce reali e potenziali, la paura di un nuovo attacco. E il prezzo che il paese è disposto a pagare non finisce qui. 

 

Nella proposta israeliana e nel piano delineato da Biden non c’è la risposta a una domanda: che fine farà Hamas? Secondo alcuni retroscena israeliani, il capo della Casa Bianca e Netanyahu si intendono più del previsto, a porte chiuse il secondo è più incline al compromesso, quando apre la porta, cambia. In ebraico Bibi è in un modo e parla di fine della guerra, in inglese è in un altro e dice andiamo avanti a qualunque costo. Secondo chi lo osserva da anni, meglio ascoltarlo in ebraico che in inglese e Biden lo ha capito. Questo lascia la speranza per un negoziato ma non per la fine di Hamas: “Così come il piano è stato presentato, dimostra che sia Israele sia gli Stati Uniti accettano Hamas come dato di fatto. E’ ovvio che non è possibile sviluppare alcuna alternativa se il gruppo manterrà il potere e rimarrà il padrone degli aspetti militari e civili di Gaza”, spiega al Foglio Michael Milshtein, analista nel Moshe Dayan Center che segue e studia Hamas da tempo. Secondo l’Egitto, il gruppo della Striscia guarda in modo positivo alla proposta, “si adatta alla maggior parte dei suoi interessi e al desiderio di restare al potere a Gaza. Ma Hamas non ha ancora presentato una risposta formale”, conclude Milshtein. Netanyahu ha promesso la distruzione di Hamas, non ottenendola potrebbe controbilanciare l’insuccesso con la normalizzazione storica dei rapporti con l’Arabia Saudita, come già accaduto quando aveva promesso che Israele avrebbe annesso i territori dell’area C della Cisgiordania e dimenticò la promessa per l’avvio degli Accordi di Abramo. Fu una decisione oculata e con meno responsabilità rispetto a quella che è chiamato a prendere ora.  

 

Nel racconto di questi giorni di annunci mancano però dei personaggi: nessuno dei leader di Hamas ha parlato e Yahya Sinwar potrebbe avere buone ragioni per continuare la guerra. Con il 7 ottobre ha ucciso milleduecento cittadini israeliani  nei kibbutz che continuano a restituire corpi, come quello di Dolev Yahud, identificato ieri; ha rapito più di duecento persone, alcune uccise  durante la prigionia, come Nadav Popplewell, Amiram Cooper, Yoram Mezger, Haim Perri, la  morte di tutti e quattro è stata annunciata ieri, i loro corpi sono ancora nelle mani dei terroristi;  e nonostante la devastazione, è riuscito a trascinare Israele in un pantano di accuse internazionali, a ricucire la causa palestinese, a rafforzare il gruppo in Cisgiordania e davanti alla possibilità di indebolire ancora di più lo stato ebraico potrebbe volere altra guerra, altri morti a Gaza, altre proteste in Israele. La proposta di accordo è di fatto dettata da Hamas, l’aggressore che non è detto sia pronto ad accettare. La pressione internazionale unilaterale diretta contro Israele ha reso Sinwar il padrone di ogni mediazione e il maestro di una lezione pericolosa.

  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)