Dalla nostra inviata

Il tunnel delle famiglie degli ostaggi

Micol Flammini

A Tel Aviv c’è chi immagina i ritorni, come Gil, il cugino di Carmel, rapita il 7 ottobre. Le proteste contro il governo sono forti e rabbiose, ma chi vuole l’accordo adesso teme il sabotaggio di Hamas

Tel Aviv, dalla nostra inviata. La piazza degli ostaggi, kikar HaHatufim, è un quadro in cambiamento. E’ la foto mossa di una città, Tel Aviv, che si stringe attorno alle famiglie di chi il 7 ottobre è stato rapito, di chi è stato ucciso, di chi è tornato. E’ mossa perché come il dolore cambia ogni giorno, non ha mai la stessa intensità. E’ mossa perché come l’ansia si tiene a bada con il respiro, fino a quando non esplode, fino a quando non diventa un grido. Dai primi giorni dopo l’attacco di Hamas, lo spazio davanti al Museo di arte era diventato il punto di incontro di una terapia collettiva. Sulla piazza era stato allestito un lungo tavolo apparecchiato per gli assenti. Oggi il lungo tavolo è grigio, tutta la piazza ingrigisce, la mangia il tempo, come gli ostaggi tenuti nei tunnel di Gaza, che compiono gli anni, che invecchiano, che crescono, che difficilmente sapranno quanto tempo è trascorso da quando sono stati presi e trascinati dai terroristi nella Striscia: duecentoquarantatré giorni. La piazza è un messaggio, un incontro. Per lo scontro c’è la strada, ci sono le proteste che esplodono più  volte a settimana, con gli israeliani che chiedono un accordo subito, adesso, immediatamente, akhshav. Tra i manifestanti, c’è sempre Gil Dickmann, il corteo lo conosce, risponde ai suoi cori. 

 

Gil Dickmann (foto di Micol Flammini) 

 

In una mano Gil ha il megafono nell’altra ha la foto di sua cugina Carmel. I volti della protesta sono tesi, scuri, rabbiosi, Gil invece sorride nel vedere quanta gente ha attorno: “Quando ho sentito che Israele aveva fatto una proposta per riportare mia cugina, mi sono sentito finalmente contento. Abbiamo aspettato troppo, loro hanno aspettato troppo”. Quando Carmel è stata rapita aveva trentanove anni, ora ne ha quaranta, doveva essere liberata durante la tregua di novembre, ma Hamas ha ripreso i combattimenti, “mia cugina aspetta ancora, è lì, ora la sento più vicina”. Sembra irreale quel sorriso, l’energia con cui muove il megafono crea movimenti ritmici, sente davvero la speranza, non la rabbia. Gli israeliani chiamano la proposta illustrata dal presidente americano Joe Biden “piano Netanyahu”, è un modo per far sentire al premier che ormai non può fare passi indietro, l’intesa ha il suo nome e deve avere il coraggio di portarla avanti, al di là delle pressioni politiche. Netanyahu si è tenuto lontano dalle famiglie degli ostaggi, non ha voluto sentire il loro dolore, le loro richieste, si è rifiutato di incontrarle e ora il loro risentimento non è tanto politico quanto umano: per molti è il premier senza volto, una maschera e chi protesta si infila davvero la maschera di Bibi priva di espressioni.

 

 Per molti il premier è senza volto e chi protesta si infila davvero la maschera di Bibi priva di espressioni (foto di Micol Flammini)

 

I  parenti degli ostaggi e chi manifesta con loro si aspettano che sia lui, il premier lontano anni luce, a difendere il piano per liberare chi è nelle mani di Hamas. Vogliono lo stesso trattamento per i vivi e per i morti. Lunedì l’esercito ha aggiunto alla lista dei defunti quattro ostaggi: Chaim Peri, Amiram Cooper, Yoram Metzger, Nadav Popplewell. Tutti e quattro erano comparsi nei video di Hamas. A dicembre, con i primi tre i terroristi avevano  montato un filmato in cui, anziani e malandati, erano costretti a recitare le parole di una canzone mizrahi israeliana: “Non fateci invecchiare qui”, dicono i versi della canzone, “non fateci invecchiare qui” chiedevano loro. Non sono invecchiati, sono morti. Israele vuole far sapere a Hamas che sa quanti ostaggi sono  vivi, vuole misurare il peso negoziale dei terroristi per portarli a un accordo. 

 

 

In un’intervista al Time, Joe Biden ha detto che “ci sono tutte le ragioni perché le persone credano” che Netanyahu stia prolungando la guerra per questioni politiche, ma per quanto la piazza degli ostaggi esploda di rabbia, ansia, risentimento, per quanto forti siano i cori contro Netanyahu e contro i ministri estremisti Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich, gli unici rimasti a rifiutare l’accordo dopo che il partito ultraortodosso Shas ha accettato, la paura più grande è che sia Hamas a sabotare i negoziati. “Spero che il premier sia forte abbastanza per resistere alle pressioni politiche, non credo possa dispiacergli che la liberazione degli ostaggi venga fatta a suo nome. Però – dice Gil – questa non è la prima proposta che fa Israele, finora Hamas ha sempre rifiutato. Non ha a cuore la vita di nessuno, non soltanto degli israeliani che ha rapito, ma anche dei palestinesi, se la guerra va avanti non gli interessa, è un’organizzazione terroristica, si identifica con la morte, non la evita. Può cambiare idea se il Qatar e gli Stati Uniti fanno pressione. Il Qatar ha le mani sporche del sangue di tanti cittadini israeliani, questa è la sua occasione per aiutarci”. 

 

 Il lungo tavolo nella piazza di Tel Aviv apparecchiato per gli assenti (foto di Micol Flammini)

 

Nella piazza degli ostaggi è stato costruito un tunnel, serve a ricordare dove sono i centoventiquattro rapiti, vivi o morti. Nel tunnel si entra, ma non va in profondità,  non è umido, non ha nulla a che fare con i sotterranei di Gaza, è una bella copia troppo luminosa per essere vera: un senso di curiosità inutile per aver soltanto immaginato di poter comparare il posto della prigionia e questa installazione nel centro di Tel Aviv è subitaneo. Però serve a tenere vigile l’attenzione, a non far avanzare la nube dell’abitudine e serve anche a mostrare che dal tunnel si può uscire: qui si immaginano i ritorni. Gil lo fa con chiarezza: “Quando Carmel tornerà le chiederò scusa, è rimasta troppo in prigionia e adesso un solo giorno in più sarebbe un errore. E’ viva, lo so, ma può morire in qualsiasi modo, uccisa da Hamas o per errore. Quando sarà qui comprenderà di nuovo la libertà. Ha già aspettato troppo”. 
 

  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)