Le incertezze sull'accordo

La pressione in ritardo su Hamas

Micol Flammini

Il gruppo deve rispondere alla proposta israeliana, ma ruba tempo al negoziato. La lettera degli Stati Uniti e quello che le Nazioni Uniti non vedono 

La pressione su Hamas, affinché accetti gli accordi per la liberazione degli ostaggi e il cessate il fuoco, è iniziata in ritardo, ma cerca di muoversi rapidamente. Ieri un gruppo di paesi con cittadini tenuti in prigionia da Hamas ha firmato una nota congiunta per dire al gruppo di accettare la proposta che “Israele è pronto a portare avanti”. Invece, il gruppo continua a insistere che senza la sicurezza della fine del conflitto non accetterà alcun accordo, così rimane nella Striscia e porta avanti la guerra determinato ad arrivare o alla distruzione o alla vittoria, che può essere intesa in modo ampio. Per Hamas la guerra non ha costi, né in fatto di vite umane né in termini economici. Le vittime civili sono viste come un mezzo per arrivare alla sconfitta di Israele, Yahya Sinwar è convinto che più palestinesi perderanno la vita, più lo stato ebraico sarà braccato dalla pressione internazionale. Non è un calcolo sbagliato e per accelerarlo Hamas posiziona le sue strutture dove sono i civili: case, moschee, ospedali, scuole, anche quelle gestite dall’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinese (Unrwa). Ieri l’esercito israeliano ha colpito proprio una scuola a Nuseirat, nella fascia centrale della Striscia. Secondo Israele  l’edificio veniva utilizzato dai combattenti di Hamas e al suo interno si trovavano circa trenta terroristi oltre ad alcuni civili. L’attacco ha preso di mira tre aule dove erano riuniti i membri delle forze d’élite Nukhba che hanno partecipato al 7 ottobre, e che dalla scuola avevano anche diretto alcuni attacchi contro Israele. Dopo il bombardamento, il ministero della Salute, che è gestito da Hamas, ha detto che le vittime erano più di trenta ed erano soltanto civili, che non c’erano terroristi nell’area e che lo stato ebraico aveva preso di mira una scuola delle Nazioni Unite. Israele ha spiegato l’operazione, confermando di aver eliminato un numero imprecisato di terroristi, da venti a trenta, e non ha negato che il bersaglio era una scuola delle Nazioni Unite. Lo scambio di accuse ha seguìto il solito copione, la solita confusione, con il sensazionalismo che provoca la frase “scuola delle Nazioni Unite”. L’Unrwa è ben radicata dentro alla Striscia di Gaza e i rapporti sulla sua collaborazione con Hamas si stanno sommando. L’esistenza di depositi di armi nelle strutture delle Nazioni Unite e  la libertà con cui Hamas ne ha disposto finora non hanno portato a rispondere a una domanda importante sulle responsabilità: l’Onu non si n’è mai accorta? I suoi edifici sono stati usati per fare propaganda contro lo stato ebraico, per impilare armi, per lanciare attacchi, i terroristi li hanno usati a piacimento  e se adesso sono diventati obiettivi di guerra la responsabilità non può essere imputata a Israele. 


Secondo l’ong UN Watch, il capo dell’Unrwa Philippe Lazzarini avrebbe avuto incontri con persone vicine a Hamas e al Jihad islamico, e raggiunto un accordo secondo il quale l’Unrwa non avrebbe perseguito i suoi dipendenti per violazioni di leggi internazionali. L’istituto Impact-se, che si occupa di monitorare le attività scolastiche in medio oriente, ha fornito alcuni esempio del tipo di istruzione impartita nelle scuole dell’Unrwa. L’organizzazione ha aperto circa trecento scuole a Gaza, per circa trecentomila studenti e assumendo più di novemila insegnanti. Impact-se ha analizzato alcuni dei testi scolastici utilizzati dall’Unrwa e ha stabilito che incitano all’odio, glorificano attacchi suicidi, demonizzano Israele e promuovono l’antisemitismo. Impact-se ha fornito un esempio: in una lezione per spiegare il secondo principio della dinamica viene usata l’immagine di un ragazzo con la kefiah in testa che usa una fionda contro i soldati.
Come ha detto Marcus Sheff, direttore dell’organizzazione Impact-se, il punto non è togliere ogni finanziamento all’Unrwa ma riconoscere la sua incapacità a occuparsi dell’istruzione, o della distribuzione degli aiuti umanitari, che entrano dentro alla Striscia attraverso i valichi con Israele e poi stazionano a lungo senza essere consegnati alla popolazione o finiscono nelle mani di Hamas. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)