in israele

Gantz lascia il governo. Le sei richieste a Netanyahu

Micol Flammini

Dopo il salvataggio dei quattro ostaggi, l'ex capo di stato maggiore ha deciso di non poter rimanere nel gabinetto di guerra e ha chiesto elezioni anticipate. I ministri estremisti scalpitano per prendere il suo posto, ma il premier sa che non è con loro che può vincere contro Hamas. L'occhio di Gallant, che attende

Benny Gantz aveva già preso la decisione di andarsene   consapevole che il suo gesto, da solo, avrebbe cambiato di poco il futuro del governo di Benjamin Netanyahu. Aveva deciso di dimettersi nel momento stesso in cui, il 18 maggio, aveva lanciato un ultimatum, minacciando di lasciare il governo di unità nazionale se il premier non avesse adottato sei obiettivi: rilascio degli ostaggi, eliminazione di Hamas, smilitarizzazione della Striscia, ritorno dei cittadini nella Galilea bersagliata da Hezbollah entro il primo settembre,  normalizzazione con l’Arabia Saudita, leva obbligatoria per tutti gli israeliani. Anche Gadi Eisenkot ha lasciato il gabinetto di guerra, il generale è alleato dell’ex capo di stato maggiore, la sua permanenza al fianco di Netanyahu era ormai incompatibile con la sua continua richiesta di elezioni.  Gantz sapeva quanto fossero ambiziose le sue richieste, sapeva anche quanto fossero necessarie al paese, conosceva pure la difficoltà del premier nel prendere qualsiasi decisione perché intrappolato in un rapporto scomodo con i suoi alleati di ultradestra, il ministro per la Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir e il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich. Netanyahu crede di poter controllare gli estremisti meglio dei politici di opposizione, rimane incollato alle minacce dei primi, muovendosi a ritmo di un conto alla rovescia inevitabile. Non sarà   Gantz a far cadere il governo, ma saranno argomenti che il governo non può non discutere: leva obbligatoria per tutti, condizioni dell’accordo con Riad, piano per il dopo guerra a Gaza. Gantz ha chiesto elezioni anticipate,  sa quanto la sua presenza nel gabinetto di guerra fosse una sicurezza per gli israeliani, ha cercato di mostrare che la sua uscita dal governo non fosse un tradimento, ma il primo passo per vincere la guerra, per rifare il paese, istituire una commissione per stabilire cosa è accaduto il 7 ottobre e andare a votare.

 

Mentre gli estremisti festeggiavano l’uscita di Gantz, convinti di poter mettere le mani sul gabinetto di guerra, è stato Netanyahu il primo a chiedere al suo ex ministro della Difesa di ripensarci: “Benny, ripensaci”.  I due si sono avvicinati, aiutati, osteggiati, allontanati, traditi innumerevoli volte. Gantz va, ma chi resta è tutt’altro che compatto e anche dentro al Likud, il partito del premier, c’è chi potrebbe abbandonare Netanyahu a breve: il suo ministro della Difesa, Yoav Gallant, sempre vestito di nero, senza sorrisi, non nasconde di non avere più nulla da condividere con il premier. La distanza tra Bibi e Gallant era visibile da una foto: sabato, i due nella stanza di controllo per seguire a distanza il salvataggio dei quattro ostaggi che venivano portati via dalla Striscia durante un’operazione molto pericolosa. Noa Argamani, Almog Meir Jan, Andrey Kozlov e Shlomi Zvi, rapiti tutti e quattro il 7 ottobre dal Nova Festival di Re’im, nel sud di Israele, sono stati liberati dopo otto mesi ed erano detenuti in due case di Nuseirat, che si trova nella parte centrale di Gaza. Noa era sola, gli altri tre si trovavano invece nell’abitazione di un giornalista membro di Hamas, Abdallah Aljamal, ex portavoce del gruppo, collaboratore di varie testate e autore di un articolo apparso su al Jazeera nel 2019. L’operazione organizzata dall’esercito, dalla polizia di frontiera e dai servizi segreti dello Shin Bet, ribattezzata “Semi d’estate”, era stata comunicata soltanto in un secondo momento a Gantz, che già aveva preso la decisione di abbandonare il governo, ma nella stanza di controllo, Gallant e Netanyahu erano distanti, silenziosi. E’ da tempo che non vanno più d’accordo: da quando sono iniziate le proteste in Israele contro la riforma della Giustizia. Quanto è cambiata Israele da allora, ma i pesi e i contrappesi rimangono gli stessi e difficilmente Gallant accetterà di stare nel gabinetto di guerra in cui Ben Gvir, che non ha mai fatto il servizio militare e nel frattempo aizza parte della società israeliana alla rivolta e all’occupazione della Striscia, scalpita per entrare. 


E’ il tempo delle decisioni impossibili da rimandare per Netanyahu: rimanere o andare via; fare la legge sulla leva obbligatoria, come sarebbe necessario, oppure lasciare tutto com’è; accettare la normalizzazione con l’Arabia Saudita che prevede il futuro riconoscimento di uno stato palestinese oppure aspettare che le elezioni negli Stati Uniti portino una nuova Amministrazione pronta a rimettere in discussione l’accordo; organizzare di una commissione che indaghi sulle mancanze del 7 ottobre o attendere la fine di una guerra che potrebbe essere eterna. 
 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)