L'editoriale dell'elefantino
Al fondo della fragilità di Joe Biden c'è la sindrome del Vietnam
È stata la perdita totale di fiducia nelle proprie ragioni da parte dell’occidente. Con poche eccezioni, gli anni di Reagan e il post 11 settembre, gli americani e il mondo non ne sono mai veramente usciti
La fragilità di Joe Biden è evidente molto al di là della sua età e delle sue condizioni fisiche. Prigioniero di circostanze avverse, ha dovuto negli ultimi mesi degradare a incertezza, dilazione, ambiguità negli obiettivi la sua iniziale capacità di reagire all’invasione dell’Ucraina e alla guerra di Putin in Europa, con le conseguenze che si conoscono. Strategia e visione, sonanti e perfino scintillanti nei suoi discorsi (compreso quello per gli ottanta anni del D-Day), si sono infrante in un momento decisivo contro lo scoglio del Congresso americano, che ha messo in serie difficoltà la battaglia di Kyiv con la negazione di armamenti e finanziamenti alla difesa del paese. Biden si è perfino dovuto scusare con Zelensky, una prima assoluta sul fronte diplomatico e politico internazionale.
La fuga da Kabul aveva fatto precipitare brutalmente una capacità di deterrenza americana e occidentale che era forse l’ultima barriera per impedire a Putin di compiere fino in fondo il percorso cominciato con le imprese cecena, georgiana, siriana, e con la Crimea e l’infiltrazione del Donbas. Rianimare la Nato “a encefalogramma piatto” (Macron) è stato necessario ma non sufficiente, sopra tutto per la decisione di subire la scalata russa degli obiettivi bellici senza opporre linee rosse invalicabili e addirittura finendo a corto di munizioni con un Pentagono definanziato. Alle origini di questa crisi di guida o leadership stanno i grossolani errori (e qualcosa di peggio) di Obama in Siria e in Libia, la scelta dell’Indo-Pacifico come nuova frontiera del conflitto potenziale strategico, e la derubricazione del medio oriente (Iran, Israele prima di tutto) a crisi regionale minore nel quadro mondiale. Equivoci che George W. Bush, ultimo presidente americano all’offensiva dopo l’11 settembre, non aveva coltivato, con tutti i guai della guerra contro Saddam Hussein e in Afghanistan.
Poi è venuto il 7 ottobre di Hamas, con il grande trauma israeliano, e la guerra a Gaza e al confine del Libano, e l’Iran di nuovo in primo piano anche con la banda di predoni Houti a insidiare il commercio marittimo internazionale. Anche qui Biden si è rivelato fragilissimo, con abbracci e solidarietà per la prima volta portati da un presidente americano in territorio di guerra, portati personalmente tra le bombe in nome dell’autodifesa di Israele mentre partiva la guerra a Gaza, seguiti da un progressivo distacco da Israele e da una volontà di coartare il braccio dell’autodifesa prima legittimata. Di nuovo discorsi altisonanti hanno messo capo a un progressivo cedimento alle ragioni folli dell’opinione antisraeliana negli Stati Uniti, nel mondo, nel circuito “umanitario” dell’Onu, sotto l’impulso di un disorientamento palese del Partito democratico sotto sfida elettorale da parte di un rampante Donald Trump e sotto ricatto da parte del partito dei campus e del nuovo antisionismo antisemita riassunto nella parola d’ordine della liberazione della Palestina dallo stato ebraico. Si possono trovare molte spiegazioni parziali per la diplomazia inefficace di un Blinken, fino all’assurdo di una proposta di resa a discrezione a Hamas, al suo stato maggiore diviso tra i tunnel e Doha, con un piano per la ritirata e la fine della guerra attribuito, pendente la drammatica situazione degli ostaggi, al governo Netanyahu, che ora spiegherà la sua indisponibilità addirittura con un terzo discorso al Congresso Usa del suo capo (il 24 luglio).
Al fondo di tutto questo pericoloso ondeggiamento, di questa subordinazione della strategia alle oscillazioni dell’opinione, insomma di questa fragilità, sta la sindrome del Vietnam. Gli americani e il mondo non ne sono mai veramente usciti, con l’eccezione degli anni di Reagan e dei pochi anni seguiti all’11 settembre con la politica dei neoconservatori. Il Vietnam era in parte un capitolo della Guerra fredda, in parte una guerra di indipendenza anticoloniale, sebbene fosse chiaro alle minoranze che l’obiettivo dei Vietcong e di Ho Chi Minh era quella che Goffredo Parise definì “l’unificazione armata tonchinese”, e che dietro la sconfitta americana si profilavano i successi sovietici degli anni Settanta, fermati solo dall’esplosione reaganiana e dall’Europa di Margaret Thatcher e di Giovanni Paolo II, e poi l’emersione inarrestabile dello spazio strategico cinese. La sindrome del Vietnam non è mai stata solo la rivolta giovanile e di massa contro la coscrizione obbligatoria, la controcultura degli anni Sessanta, i Pentagon Papers, e men che meno il semplice auspicio di una vittoria del generale Giap, tutte cose che erano in primo piano: è stata la perdita totale di fiducia nelle proprie ragioni da parte dell’occidente, un riequilibrio delle forze che, malgrado l’89, l’abbattimento del Muro di Berlino e la dissoluzione dell’impero sovietico, in un certo senso dura ancora.
L'editoriale dell'elefantino