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Lo stile Mandela e l'arte della negoziazione

Annamaria Guadagni

Il Sudafrica uscito dal voto sembra archiviare la figura di Madiba. Che errore: il suo esempio di mediazione politica resta insuperato, sopratutto se confrontato con la situazione politica attuale

Archiviare Mandela? E’ arrivato il tempo dell’oblio per il vecchio leone? A trent’anni dalla fine dell’apartheid, ora che tramonta un’epoca, si fanno conti che non tornano. Le elezioni politiche hanno infatti punito l’African national congress (Anc), il suo antico partito, crollato al quaranta per cento. Quasi ventitré punti in meno rispetto al voto della libertà nel 1994: il primo a suffragio universale, quello che trasformò il detenuto 466/64, il più famoso prigioniero politico del mondo, nel primo presidente nero del Sudafrica. Ma nella cabala elettorale sudafricana il numero più significativo in fondo non è questo. In una democrazia parlamentare, e in un arco di tempo così lungo, l’erosione è fisiologica: le scelte politiche costano, accontentare più del sessanta per cento degli elettori per ben tre decadi sarebbe un record stellare. No, qui il tonfo che conta è il crollo di oltre diciassette punti in cinque anni, dalle ultime elezioni politiche, quelle del 2019, e la perdita della maggioranza a fronte non di scelte difficili ma di corruzione, inefficienza, mancate riforme

Ora l’African national congress è obbligato a costruire una coalizione. Cyril Ramaphosa dovrà vedersela con Alleanza democratica, il partito liberista che sfiora il 22 per cento raccogliendo la maggior parte dei consensi della minoranza bianca;  oppure venire a patti con almeno una delle  due schegge di fuoriusciti dal suo partito: quella di Jacob Zuma, l’ottuagenario ex presidente cacciato per corruzione, in terza posizione con una percentuale di voti intorno al quindici per cento, o la formazione populista di Julius Malema, ex leader di nuova generazione dell’Anc, arrivato al quarto posto con il 9,5 per cento. Il nuovo governo dovrà curare un paese con la febbre alta, dove mancano acqua ed energia elettrica, i black out arrivano fino a undici ore al giorno; la disoccupazione  giovanile ha superato il sessanta per cento e la maggioranza della popolazione è rimasta povera:  il dieci per cento dei più abbienti possiede il settanta per cento della ricchezza mentre la terra è sostanzialmente rimasta in mano alla minoranza bianca; solo il dodici per cento dei sudafricani paga tasse sul reddito e la violenza insanguina le strade: un morto ogni 18 minuti, uno stupro ogni 11.
Eppure archiviare Nelson Mandela, Madiba, suona stonato se si pensa che in giro per il mondo, dove bruciano conflitti disperati e senza via d’uscita, si sente dire che ci vorrebbe uno come lui. L’eclissi del fascino di Madiba  davvero è un paradosso da esplorare, nel momento del disincanto, con le nuove generazioni nate nella smemoratezza: quattro elettori sudafricani su dieci fortunatamente non hanno mai conosciuto l’apartheid e ora votano in ragione della loro insoddisfazione e dei loro problemi. “I ragazzi che vedono sulle banconote la faccia serafica di Mandela accusano lui per il fatto di averne poche in tasca”, ha detto lo storico sudafricano Jonny Steinberg a Michele Farina,  autore di un saggio-reportage intitolato “L’isola di Mandela. Storia di una pace incompresa”, pubblicato da Solferino.
Forse il punto è che la riconciliazione nazionale di cui Nelson Mandela e Frederik Willem de Klerk furono architetti, il patto che ha evitato una guerra civile con migliaia di morti, e la costituzione che ha fondato la democrazia, assicurando ai neri libertà, diritti civili e politici, non potevano garantire anche la giustizia sociale. Meglio dirselo apertamente a distanza di trent’anni. Quella non era la palingenesi, era l’inizio di un processo democratico  che affidava alla politica il compito di trasformare la società sudafricana. Se la classe dirigente del nuovo Sudafrica non è stata all’altezza di questo enorme compito, se la borghesia nera – i Black Diamonds –  ha finito per mangiarsi lo stato anziché guidare le riforme, perché metterlo sul conto del padre della patria? E’ un po’ come la storia della Resistenza tradita, che aleggiava sulla politica italiana del Dopoguerra con la società a lungo cristallizzata negli abiti stretti del vecchio stato e della sua cultura fascista: e cioè l’illusione che la fine della dittatura potesse essere molto di più di un’alba democratica.

Michele Farina, inviato del Corriere della Sera, conosce bene il Sudafrica, lo frequenta da vent’anni. Così è tornato sull’Isola simbolo della lotta all’apartheid per interrogare i sogni infranti, le ragioni delle promesse mantenute, di quelle disattese e di quelle impossibili. E’ andato a Robben Island, l’università della politica dove il negoziato per uscire dall’infamia dell’apartheid prese forma nella testa di Mandela e poi dei suoi sodali, per provare a guardare da lì il Sudafrica contemporaneo e una pagina straordinaria di storia del Novecento. Ne è uscito un viaggio sentimentale, un libro piacevole da leggere, utile a chi voglia capire, e naturalmente anche a chi voglia metterselo in tasca per andare davvero sull’Isola delle foche. Quel puntino verde sulla punta dell’Africa, a poche miglia da Città del Capo, immerso nella luce abbagliante e circondato dalle acque fredde e vorticose che separano il continente dai ghiacci dell’Antartide.
Robben Island, oggi sito Unesco, è un luogo estremo non solo geograficamente. E’ una specie di sacrario e un monumento di storia orale (si trovano ancora ex detenuti a fare da guide). Dal Seicento l’isola fu usata come prigione, lebbrosario, ospedale psichiatrico. Qui l’inferno dei prigionieri era gelido come i venti polari, come il cibo e le celle strette; era bianco come la pietra della cava che regalava loro una progressiva “cecità da neve”. Impossibile fuggire. Chi aveva provato con imbarcazioni di fortuna si era schiantato sugli scogli prima di arrivare a terra: il più famoso tentativo di evasione fu quello che nel 1820 coinvolse il generale xhosa Makana, un gigante mancino alto due metri.  Quando Mandela contrattò per i detenuti bantu il diritto di portare i calzoni lunghi, di mangiare non solo porridge e poi di curare un orto, leggere e giocare a calcio, fu allora che nacque la Makana Football Association.  

Contrattare: sembra che, in vita sua, Madiba non abbia fatto altro, in fondo era un famoso avvocato. Di più, secondo il professor Robert Mnookin, direttore del Programma di negoziazione alla Scuola di legge dell’Università di Harvard, è stato il più grande negoziatore del secolo XX. Farina definisce quella con il regime come “una partita a scacchi” lunghissima. Difficile dire quando sia cominciata davvero.  Mandela non era un pacifista né un Gandhi africano, ma mai pensò di buttare a mare i bianchi che dal Seicento si erano insediati in Sudafrica. L’Anc immaginava una democrazia multipartitica e multietnica; nella Freedom Charter del 1955 c’è scritto chiaramente. Ma certo nel partito non tutti la vedevano allo stesso modo e l’Anc non era l’unico attore sulla scena: c’era anche il Pan Africanist Congress (Pac), che voleva un’Africa federale restituita ai soli africani e organizzava azioni di disobbedienza civile.  Come quelle contro il dompass, il documento con il nome del datore di lavoro necessario ai neri per entrare nelle zone riservate ai bianchi. Nel 1960, durante una pacifica protesta contro il dompass, a Sharpeville la polizia sparò sulla folla inerme che fuggiva. 
Il massacro di Sharpeville segna la nascita del braccio armato dell’Anc, allora il regime era troppo forte per sedersi a negoziare cambiamenti e la protesta pacifica sarebbe stata comunque repressa nel sangue. Mandela sapeva anche che non avrebbe mai potuto vincere una guerra civile, l’obiettivo era costringerli a trattare rendendo il paese ingovernabile. Il braccio armato dell’Anc iniziò allora una campagna di sabotaggi, sarebbero arrivati alla guerriglia, si erano addestrati e l’avevano messa nel conto, ma il gruppo dirigente fu catturato e spedito a Robben Island, oppure costretto all’esilio. La partita a scacchi era cominciata.
Dunque torniamo sull’Isola, dove Mandela arriva con una condanna a vita e un gruppo di compagni nel 1964.  Durante il processo di Rivonia, dove aveva rivendicato il ricorso alla lotta armata, aveva deciso di imparare l’afrikaans: non avrebbe potuto capire come pensavano i suoi nemici senza conoscerne la lingua.  L’osso duro del regime erano i boeri, gli afrikaner discendenti dei coloni olandesi; e Madiba era stato educato nella cultura anglofona, il grande libro della sua vita  non era “Il Capitale” di Marx, erano le opere di Shakespeare. Molti anni dopo, quando incontrerà per la prima volta il presidente Botha, che non sapeva parlare in inglese, potrà concedergli di esprimersi nella sua lingua. Questa regalità, che spiazzava i nemici,  lasciava di stucco anche gli attivisti di nuova generazione  arrivati a Robben Island, ai quali il prigioniero 466/64 presentava ironicamente i secondini come “la mia guardia d’onore”. Michele Farina cita ancora Jonny Steinberg: secondo lui, Mandela era cresciuto con una sorta di “dissonanza cognitiva”. Aveva dovuto armonizzare e rendere compatibili dentro di sé il gentiluomo vittoriano, formato dall’educazione scolastica, e il ragazzo africano cresciuto nel mito degli antenati. Anche questo fece di lui un grande mediatore e forse è proprio questo che oggi gli rimproverano. 
Un negoziatore nato. Per capire quanto grande sono entrata in uno dei testi di riferimento del Programma di negoziazione della Scuola di legge di Harvard: “Bargaining with the Devil: when to negotiate, when to fight” di Robert Mnookin,  Simon & Schuster 2010. In questo saggio, Mnookin assume il rifiuto di Winston Churchill di negoziare con Hitler e la decisione di Mandela di trattare con il regime razzista sudafricano come possibili archetipi di scelte opposte, fatte in entrambi i casi correndo enormi rischi. Per Mandela qualcosa cominciò a muoversi nel 1982, quando  il regime fece trasferire i capi dell’Anc, dopo diciotto anni di carcere duro, da Robben Island a Pollsmoore, una prigione sulla terra ferma, a seguito della campagna internazionale  contro l’apartheid che aveva ripreso fiato nel 1980, guidata dall’esilio da Oliver Tambo. 

Nel 1985, quando il ministro della Giustizia  Kobie Coetsee comincia a consentire ad autorevoli visitatori internazionali di incontrare Mandela in carcere per verificarne le condizioni, lui capisce che il vento sta cambiando ed è tempo di prendere l’iniziativa.  Ma come farlo? Accordarsi con Tambo che si trova all’estero richiederebbe mesi, parlarne con i suoi compagni in carcere farebbe fallire qualunque tentativo prima ancora di iniziare. Fu allora che Mandela scrisse segretamente una lettera a Coetsee che, dopo qualche mese, ebbe dal Grande Coccodrillo (il presidente Botha) l’autorizzazione ad avviare colloqui segreti. Mandela era in ospedale e Coetsee andò a trovarlo. Tecnicamente fu quello l’inizio di una trattativa durata ben cinque anni; solo nel 1988 si costituì un’apposita commissione speciale. L’anno dopo, a spianare la strada, sarebbero arrivate la caduta del muro di Berlino e la fine della Guerra fredda. Il prigioniero 466/64 è stato liberato nel 1990.
In partenza, la negoziazione fu vista, da entrambe le parti del tavolo, come possibile tradimento. Mandela si giocava la reputazione (e il Grande Coccodrillo lo sapeva, era nelle loro mani, proprio questo lo rendeva affidabile); per smarcarsi, il prigioniero chiese al suo avvocato di informare Oliver Tambo e assicurare l’Anc che non sarebbe andato avanti senza la loro approvazione. Fuori c’era soltanto violenza: nel 1986 furono bombardate le basi dell’Anc in Zambia, Zimbabwe, Botswana; nel paese vigeva lo stato di emergenza. Il regime offriva a Mandela la libertà in cambio della rinuncia incondizionata alla lotta armata; lui chiedeva la fine dell’apartheid e la liberazioni di tutti i prigionieri politici come gesto unilaterale, come pre-condizione per trattare. Come fecero a uscirne? Mnookin fa notare che Mandela sapeva distinguere e scegliersi gli interlocutori: si rendeva conto che non avrebbe potuto concludere con Botha e solo quando  entrò in scena de Klerk, che poi ebbe con lui il Nobel per la pace, capì di aver trovato un uomo con il quale “we could do business with”. 
Un buon negoziatore sa distinguere il Diavolo – in questo caso il regime segregazionista – dalla paura: i bianchi erano pochi e temevano di essere spazzati via dalla forza dei numeri.

Sulla democrazia parlamentare Mandela fu irremovibile, una testa-un voto, senza alcun possibile “diritto di gruppo”: vinse la partita in politica in cambio di quella sull’assetto economico, con la rinuncia alle nazionalizzazioni, la protezione della proprietà privata, dei posti di lavoro e delle pensioni dei dipendenti pubblici. Il compromesso per avviare la pacificazione fu questo. Stringere questo genere di patti, commenta Mnookin, soprattutto in caso di conflitti etnici violenti, richiede un’abilità enorme. Bisogna giocare sul tavolo della trattativa e, insieme, intrecciare fili alle proprie spalle, per non spaccare il proprio fronte. Un buon negoziatore sa tenere sempre aperta la prospettiva, non importa quanto costa in termini emotivi. A Madiba costò moltissimo. Noi lo ricordiamo sorridente, in eleganti camicie colorate. Jonny Steinberg ha raccontato a Michele Farina che in realtà era un uomo cupo, parlava pochissimo. Qualcosa di lui, il dolore e la rabbia, era rimasto pietrificato a Robben Island.

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