La strategia “un paio di mani sicure” di von der Leyen (e un non invito)
La presidente della Commissione europea punta alla stabilità per un secondo mandato e prova formare un bastione contro gli estremisti. Nervosismi e trattative in vista del voto al Parlamento europeo del 18 luglio
Bruxelles. Ursula von der Leyen ha deciso di giocare la carta della “stabilità” per convincere i capi di stato e di governo e il Parlamento europeo ad affidarle un secondo mandato come presidente della Commissione. “In questi tempi turbolenti abbiamo bisogno di stabilità, responsabilità e continuità”, ha detto von der Leyen durante una conferenza stampa lunedì a Berlino con il leader della Cdu, Friedrich Merz. La Spitzenkandidat del Partito popolare europeo ha spiegato di voler continuare con la sua attuale maggioranza, che comprende i Socialisti&Democratici e i liberali di Renew. Von der Leyen ha anche annunciato di voler formare “un bastione contro le estreme di sinistra e di destra”. Di fronte alla Russia, al cambiamento climatico e al possibile ritorno di Donald Trump “un’Europa forte è necessaria”, ha detto von der Leyen. A Bruxelles la chiamano la strategia “un paio di mani sicure”. Dopo la sua gestione positiva della pandemia di Covid-19, della guerra contro l’Ucraina e dell’aumento dei prezzi dell’energia, perché correre rischi affidandosi a mani diverse da quelle di von der Leyen? Rafforzata dai risultati delle elezioni europee, con il Ppe che ha conquistato una manciata di seggi in più, la sua conferma appare più vicina. Emmanuel Macron e Olaf Scholz sono fragili sul piano interno ed europeo. Eppure von der Leyen mostra segnali di nervosismo. Ieri ha fatto sapere la sua irritazione per non essere stata invitata dal presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, alla cena informale dei capi di stato e di governo del 17 giugno per discutere delle nomine. “Questa è una cena informale dei membri del Consiglio europeo, di cui la presidente della Commissione è un membro. Di conseguenza ci aspettiamo che ci sia”, ha detto una portavoce di von der Leyen.
Michel ha scelto non invitare von der Leyen dopo aver consultato i leader. Una maggioranza ha espresso il desiderio di avere una discussione “aperta” e “franca” su chi scegliere come presidente della Commissione, presidente del Consiglio europeo (il favorito è l’ex premier portoghese socialista, António Costa) e Alto rappresentante per la politica estera (dovrebbe andare a un liberale dei paesi dell’est). E’ il 17 giugno che un leader potrebbe proporre nomi alternativi. Assente, von der Leyen non sarebbe in grado di evitare un incidente. Presente, potrebbe offrire concessioni a questo o quel leader per assicurasi il suo voto. Se Michel non cambierà idea sull’invito, von der Leyen avrà l’occasione di fare promesse nei contatti informali al summit del G7 di Borgo Egnazia e alla conferenza di pace sull’Ucraina in Svizzera. Al Consiglio europeo non serve l’unanimità e nemmeno il sostegno dei grandi paesi. Basta una maggioranza qualificata di leader che rappresentino il 65 per cento della popolazione e il 55 per cento degli stati membri. Jean-Claude Juncker fu nominato nel 2014, nonostante il voto contrario del premier britannico, David Cameron.
Il nervosismo di von der Leyen potrebbe essere legato anche al voto al Parlamento europeo, programmato per il 18 luglio. La “maggioranza Ursula” ha circa 400 deputati, sopra la soglia dei 361 necessari per la fiducia. Ma la mappa di eletti che si sta disegnando conferma che potrebbero esserci una cinquantina di franchi tiratori. Molti hanno consigliato a von der Leyen di rivolgersi ai Verdi, che chiedono in cambio di salvare il Green deal. Questo metterebbe a rischio il sostegno di una parte del Ppe e in particolare della sua Cdu. Così von der Leyen preferisce rimanere ambigua e parlare di “ponti” per costruire una “grande maggioranza”. Il messaggio è diretto a Giorgia Meloni con i suoi 25 eurodeputati. Il “bastione” contro gli estremisti è più forte a parole che nei fatti. Nel 2019 von der Leyen ottenne il sostegno dei due leader dell’estrema destra, l'ungherese Viktor Orbán e il polacco Mateusz Morawiecki, in cambio della promessa di non essere troppo severa sullo stato di diritto.