Lo scopo di Blinken in medio oriente: fare pressione su Hamas

Micol Flammini

Il gruppo consegna la prima risposta formale ai mediatori di Egitto e Qatar. Gli Stati Uniti sono ottimisti, ma sottolineano: tutto dipende da sola persona, Yahya Sinwar

Il segretario di stato americano Antony Blinken sente su di sé il peso di un accordo da chiudere. E’ di nuovo in medio oriente a cercare di mettere fine al conflitto tra Israele e Hamas.  Il suo ultimo viaggio tra lo stato ebraico e i suoi vicini risale a circa un mese e mezzo fa, ora  c’è di nuovo una proposta israeliana sul tavolo, gli Stati Uniti la appoggiano, gli altri paesi mediatori, Egitto e Qatar, spingono, e, secondo il sito Axios, Hamas  soltanto oggi ha consegnato una risposta. L’immagine della clessidra riempie le strade di Tel Aviv ed è il simbolo del tempo che Israele non ha per salvare gli ostaggi, mentre si consuma il dibattito politico di un governo che aspetta il momento di cadere e l’altra notte si è impigliato nell’approvazione di una legge per l’esenzione dalla leva per gli studenti delle yeshiva. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu  ha già appoggiato la proposta avanzata dai negoziatori israeliani e annunciata dal presidente americano Joe Biden, ma Hamas ha aspettato due settimane prima di rispondere. Gli Stati Uniti hanno sottoposto la proposta al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che ha adottato una risoluzione per esortare Hamas ad accettare. Quattordici dei quindici membri del Consiglio hanno votato a favore, la Russia si è astenuta e Hamas ha risposto: appoggiamo la proposta. E’ un segno di speranza, ha detto Blinken, sufficientemente accorto da capire che le parole del gruppo sono spesso insidiose e poco consistenti, spesso ambigue sulla liberazione degli ostaggi: Egitto e Qatar hanno confermato di aver ricevuto la risposta di Hamas, hanno detto che studieranno la posizione del gruppo e ne discuteranno con le altre parti. 


I negoziati sono iniziati a più riprese, si sono schiantati altrettante volte, il gruppo dà varie versioni e attende fedele l’unica risposta che conta, quella di Yahya Sinwar che è rimasto nella Striscia di Gaza, che calcola le morti palestinesi come fossero un investimento  contro Israele. Blinken conosce ormai le dinamiche del gruppo, sa che la leadership che vive a Doha, e che il Qatar ha minacciato di cacciare se non accetterà di negoziare, ha un potere decisionale limitato e quel che è realistico cercare dentro al gruppo, più che l’accordo, è la rottura tra Sinwar e gli altri. Le risposte favorevoli non bastano per arrivare a un accordo, serve una parola definitiva, “questo è ciò che conta – ha sottolineato Blinken – …  Tutto dipende da una sola persona”, da Sinwar. Come le proposte passate tutto è immobile e il segretario di stato che un tempo aveva esortato il gruppo ad accettare “una proposta molto generosa” – che poi non venne accettata e Hamas escogitò l’annuncio con cui finì per scaricare la responsabilità su  Israele – adesso  dice con chiarezza che “se Hamas non dice sì, allora la colpa è interamente sua, avrà votato per continuare la guerra e non per porvi fine, contro la sicurezza e il benessere di centinaia di migliaia, milioni di donne, bambini e uomini palestinesi a Gaza”. Si può dubitare del fatto che Sinwar subisca la pressione internazionale: nonostante le parole di Blinken e il tentativo americano di mettere in luce gli ostacoli posti da Hamas alla pace, la comunità internazionale continua a imputare a Israele il proseguimento della guerra. Ieri durante un’operazione a Rafah sono morti quattro soldati israeliani, salvare gli ostaggi rimasti nella Striscia con un’operazione rischiosa come quella realizzata sabato per riportare a casa Noa Argamani e gli altri tre rapiti il 7 ottobre al Nova festival è molto complesso, Gaza è da ricostruire e la permanenza per i civili palestinesi in aree ancora infestate da Hamas è un rischio quotidiano. Gli Stati Uniti premono per un accordo che in termini generali Israele ha accettato anche mettendo in pericolo la sua stessa sicurezza: la clessidra simbolo delle strade israeliane può mettere fretta a Netanyahu ma non ha il potere di convincere Sinwar. 
Micol Flammini

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  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)