nuove leve per il terrorismo islamico

Così la guerra a Gaza alimenta il serbatoio di combattenti di al Qaida

Luca Gambardella

La propaganda per reclutare foreign fighter, il paradiso afghano e la protezione dell’Iran. Ma con Hamas non è simbiosi

La guerra a Gaza sta alimenta le risorse del terrorismo islamico, che si rafforza spendendo la carta propagandistica dei “crimini sionisti” per reclutare nuovi combattenti. Qualche giorno fa, il canale usato da al Qaida per diffondere i suoi messaggi, al Sahab, ha diffuso un pamphlet a firma di Salim al Sharif. È lo pseudonimo usato da Saif al Adl, il successore di Ayman al Zawahiri, il leader del gruppo terroristico ucciso dagli americani a Kabul. Il titolo del pamphlet è “Questa è Gaza: una guerra di esistenza, non una di confini” – un titolo significativo, come vedremo – e invita i foreign fighter di tutto il mondo, in particolare quelli che vivono in occidente, a trasferirsi in Afghanistan per compiere un’hijra – in arabo significa emigrazione – con lo scopo di addestrarsi e poi colpire Israele e l’occidente.

 

Al Adl invita i musulmani a sfruttare quella grande “palestra” a cielo aperto che dal 2021 è diventata l’Afghanistan per al Qaida. Dal ritiro americano, i talebani non si sono limitati a offrire protezione ai terroristi, ma hanno anche permesso che costruissero una decina di campi di addestramento. Una comunione di intenti, quella con l’emirato afghano, che va ripagata e per questo al Adl invita le nuove reclute a sostenere anche economicamente i talebani, portando con sé un contributo in denaro. Il richiamo alla guerra a Gaza è disseminato in tutto il documento: “La continuazione del genocidio (a Gaza, ndr) richiede che il popolo dell’islam colpisca gli interessi sionisti (sia dell’occidente, sia di Israele) in tutte le terre islamiche”. “Occorre passare dalle parole ai fatti”, aggiunge al Adl, che ordina nuove “operazioni speciali” contro lo stato ebraico e i suoi sostenitori. 

  

   

Il governo dei talebani – che il leader dei terroristi definisce un “modello da seguire” – non è però l’unico alleato di al Qaida. L’altro è l’Iran, che da tempo offre un tacito sostegno ai terroristi islamici. Al Adl stesso, insieme ad altri leader del gruppo, si nasconde in Iran, mentre le frontiere con l’Afghanistan sono piuttosto porose e consentono ad armi e combattenti di sconfinare senza troppe difficoltà. Secondo Caleb Weiss, analista della Bridgeway Foundation di Houston ed esperto di terrorismo islamico, alla base della cooperazione fra Teheran e al Qaida c’è un accordo: “L’Iran permette alla leadership del gruppo terroristico di operare e nascondersi nel suo territorio, a condizione che al Qaida non cerchi di colpire il paese”, spiega Weiss al Foglio. “Fa parte della più ampia strategia dell’Iran quella di estendere la sua influenza e portata, specialmente a discapito degli Stati Uniti”. E’ la strategia, quindi, a far sì che un paese a maggioranza sciita superi le consuete diffidenze nei confronti di un movimento terroristico salafita. La condivisione degli stessi nemici – lo stato ebraico e l’occidente – finisce così per rafforzare l’asse tra Teheran e i terroristi islamici. “Non sappiamo ancora se e come l’Iran sostenga direttamente il piano di al Qaida – continua l’analista – ma il fatto certo è che l’Iran gli permette di tramare, elaborare strategie e piani da dentro il suo territorio, offrendogli protezione dagli americani”. 

  

 

Era dal 2021 che i terroristi islamici non lanciavano un simile programma di reclutamento. Oggi la guerra a Gaza per chi inneggia al jihad è diventata una risorsa per rafforzare i propri ranghi, sebbene con alcuni caveat. Lo chiarisce il titolo stesso del messaggio di al Adl: “Gaza è una guerra di esistenza, non di confini”, recita. Il punto non è secondario, anzi è la differenza sostanziale che divide Hamas dagli altri gruppi terroristici – seppure con accenti diversi. Se da una parte lo Stato islamico ha preso le distanze dai combattenti palestinesi – li considera dipendenti dagli sciiti iraniani e traditori della causa comune che dovrebbe portare a unire i musulmani nella umma, non alla creazione di un semplice stato – dall’altra, al Qaida ha una visione più complessa. Il 7 ottobre ha spaccato il gruppo terroristico, diviso fra il desiderio di sostenere la guerra contro gli ebrei e le distanze sostanziali nei confronti di Hamas. Per Cole Bunzel, dell’Hoover Institute, al Qaida è compatta nell’esaltare il braccio armato palestinese, le brigate al Qassam, ma condanna il suo volto politico. Tra le colpe di Hamas, come ha scritto l’analista sul sito Jihadica, c’è “l’abbraccio dato a quella religione ‘politeista’ che è la democrazia (partecipando alle elezioni del 2006, ndr), il rifiuto di applicare la sharia a Gaza e il nazionalismo che sottende il suo jihad”. Ricorda Bunzel come un ideologo rispettato dai comandanti di al Qaida come Abu Muhammad al Maqdisi, è solito ricordare le parole di Bin Laden e di Zawahiri a proposito di Hamas: “Possiamo trarre piacere dalla loro guerra contro gli ebrei,  proprio come traiamo piacere da qualsiasi altro gruppo innovativo che combatta gli ebrei, ma senza sostenerli”. Il problema è nel metodo (manhaj, in arabo) da cui dipende una visione e uno scopo diversi del jihad. 

 

Ma dimostrando la sua consueta capacità di adattamento, al Qaida sta mettendo da parte le discussioni teoriche preferendo trarre vantaggio dalla guerra a Gaza. “Senza dubbio, il gruppo sta usando i fatti del 7 ottobre per galvanizzare i suoi sostenitori e reclutare nuovi combattenti”, spiega Weiss. “Hanno pubblicato molti comunicati in cui elogiano Hamas e chiamano a protestare contro Israele e Stati Uniti, fomentando la rabbia del mondo islamico”. Una rabbia che potrebbe avere conseguenze anche per l’occidente. “Penso esista una minaccia reale, specialmente se la guerra a Gaza dovesse continuare”, conclude l’esperto. Le immagini dell’avanzata degli israeliani “aggiungono benzina sul fuoco che i reclutatori di al Qaida possono usare per rafforzare i ranghi o ispirare altre persone a usare la violenza in suo nome contro l’occidente”. Una minaccia condivisa dal direttore dell’Fbi, Christopher Wray, che una decina di giorni fa ha avvertito il Senato americano: “La nostra preoccupazione principale è che individui o piccoli gruppi possano trarre ispirazione dagli eventi in medio oriente per attaccarci a casa nostra”.

Di più su questi argomenti:
  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.