Antonio Costra - foto via Getty images

Dopo il voto

L'ambizione del Consiglio europeo di António Costa, il politico che parla con tutti

Marcello Sacco

Ritratto dell'ex presidente del Portogallo, attraverso la storia di quella volta che vide la finale di Europa League alla Puskás Arena insieme a Orban: pragmatismo politico, capacità di dialogo e ambizione lo potrebbero portare a sedere in una delle due più importanti istituzioni di Bruxelles

Il 31 maggio 2023, mentre la Roma di José Mourinho si gioca con il Siviglia la finale di Europa League alla Puskás Arena, António Costa decolla da Lisbona su un Falcon dell’Aeronautica militare diretto a Chișinău (dove il giorno dopo sarebbe iniziato il secondo vertice della Comunità politica europea), ma cambia rotta e fa uno scalo fuori programma a Budapest  per vedere la partita. Quando si viene a sapere in Portogallo, scoppia una polemica feroce che il commento quasi sprezzante del primo ministro non aiuta certo a placare: “La Uefa mi ha invitato e io sono andato a dare un abbraccio a Mourinho”. In realtà, la foto che lo riprende furtivamente di spalle lo mostra seduto accanto a Viktor Orbán. La sinistra lo attacca perché parla con i despoti, la destra frugale perché dirotta un aereo per andare a vedere la partita di pallone. Per i più avveduti è “il solito Costa”. Sanno che non ha mai rinunciato alla presidenza del Consiglio europeo e, per questo, ha bisogno anche di Orbán, proprio come quando, nel 2015, pur avendo perso le elezioni, si mise d’accordo con i comunisti per ribaltare il risultato.
 

Quelli però sono già gli ultimi mesi di un primo ministro che, da quando ha ottenuto la maggioranza assoluta alle legislative del gennaio 2022, non è mai stato così solo. La sinistra radicale è stanca di turarsi il naso, anche perché Costa, gli ex alleati del Pcp e del Blocco di sinistra, se li lavora ai fianchi da anni e li svuota di consensi (basti vedere i grafici delle legislative del 2015, 2019 e 2022). La destra invece non gli ha mai perdonato di essersi alleato con i comunisti. Proprio lui che non era mai stato un socialista tra i più sbilanciati a sinistra.
 

Era entrato nella segreteria del partito all’ombra di Vítor Constâncio, che alternava l’attività politica a quella di banchiere (sarà governatore del Banco de Portugal e poi vice di Mario Draghi alla Bce). Nel 1995 entra per la prima volta in un governo con António Guterres, che nel Ps guida una corrente opposta alla sua. Il suo primo incarico, da sottosegretario e poi da ministro, è ai Rapporti con il Parlamento, ruolo chiave per uno dei tanti governi portoghesi minoritari che ogni giorno devono andare a cercarsi la maggioranza in Aula per sopravvivere.
 

Nel 2004 è eletto al Parlamento europeo e ne diventa vicepresidente. Appoggia la candidatura del connazionale José Manuel Durão Barroso alla presidenza della Commissione, ma quando il conservatore Barroso lascia Lisbona per Bruxelles apre una crisi politica che i socialisti sfruttano per vincere nuovamente le elezioni. Il nuovo premier, José Sócrates, lo vuole come ministro dell’Interno. Così Costa rientra a Lisbona e quando la città è sull’orlo del tracollo finanziario sempre Sócrates gli propone di concorrere alle elezioni anticipate. Non è un declassamento, ma un trampolino. In quel momento il presidente della Repubblica è Jorge Sampaio, forse uno dei socialisti più importanti e amati assieme a Mário Soares, ed è saltato direttamente dalla poltrona di sindaco della capitale a quella di più alto magistrato della nazione.
 

Da sindaco, Costa risana i conti della città, anche se i detrattori lo accusano di trucchetti contabili con i quali il debito cittadino sarebbe passato sui conti statali. Fra l’altro, trasferisce il suo ufficio dall’elegante palazzo neoclassico in piazza del Municipio presso una palazzina anonima, appena restaurata nella piazzetta di un quartiere centrale, ma assai degradato. E’ l’inizio della riqualificazione urbana di Lisbona, che aspettava di essere riscoperta dai suoi abitanti prima ancora che dai turisti. Ed è una rigenerazione intelligente, che non ha scacciato del tutto (almeno finora) i vecchi residenti e dove ai tavolini di un bar ci si può ancora sedere senza essere spennati.
 

Poi anche in questa storia c’è di mezzo un’elezione europea. Nel 2014, dopo che è esplosa la grande crisi dell’euro e il centrodestra governa il Portogallo da tre anni applicando la ricetta della Troika, dalle urne ci si aspetta una valanga socialista. Invece il Ps vince con tre punti striminziti di distacco e il sindaco di Lisbona grida forte che non si può vincere per “un pochettino” (la parola poucochinho entra allora nel gergo politico portoghese come quell’altra, geringonça, ossia il trabiccolo congegnato dalle sinistre per traghettare il Paese fuori dall’austerità). Costa decide di dare la scalata al partito e ha bisogno dei giovani più radicali, come Pedro Nuno Santos (l’attuale segretario) per scalzare il moderato (e abbastanza anodino) António José Seguro, che se la lega al dito ma deve ritirarsi a vita privata. Nel Ps di Costa, però, come anche nei suoi governi successivi, ci sarà posto anche per i seguaci della corrente di Seguro. Perché Costa va con tutti, a costo di irritare tutti.
 

Non irrita però gli elettori che gli danno la maggioranza assoluta nel 2022, dopo sette anni di governi minoritari che hanno fatto storia coniugando riforme sociali con i conti pubblici in regola. Ma a quel punto, man mano che ci si lascia alle spalle anche l’incubo del Covid, opposizioni e media non gliene perdonano più nemmeno una. C’è infatti una cosa che Orbán non gli ha insegnato o Costa non ha voluto imparare: imbavagliare i giornalisti. Basti pensare che uno dei canali televisivi più seguiti, la rete privata Sic, fondata da un conservatore che nei primi anni Ottanta fu anche primo ministro, Francisco Pinto Balsemão, è tra quelli che non hanno dato pace né a Costa né al suo successore Pedro Nuno Santos, e alla direzione del telegiornale ha da anni un tale Ricardo Costa. Stavolta non è un caso di omonimia, come nelle ormai famose intercettazioni che secondo i pm lo incastrerebbero. È proprio suo fratello, figli entrambi di uno scrittore comunista nato in Mozambico ma originario di Goa, in India. E della sua costola indiana il premier portoghese saprà fare sfoggio sia quando riceverà Narendra Modi a Lisbona, nel 2017, sia quando andrà a visitarlo in India nel 2019.
 

Insomma, è difficile dire chi sia veramente questo leader della sinistra europea che parla con Orbán e Modi come fosse Giorgia Meloni, stringe patti con gli euroscettici in nome del comandamento del pareggio di bilancio, viene travolto dal giustizialismo mediatico ma ha appena firmato con il gruppo editoriale Medialivre, famoso per i suoi tabloid più spinti e con Cristiano Ronaldo tra gli azionisti.
 

Mentre abbandonava la politica nazionale e venivano fuori tutte le lacune dell’inchiesta che lo aveva affossato, qualcuno, nello stile sommesso dei portoghesi, parlava di golpe giudiziario. Per questo motivo un Costa alla presidenza del Consiglio europeo avrebbe una doppia ricaduta positiva interna: rappacificare l’opinione pubblica nazionale e permettere all’attuale primo ministro, il conservatore Luís Montenegro, di tendere una mano al Ps per l’approvazione della Finanziaria, pena lo scioglimento di un altro governo ampiamente minoritario. L’operazione che ieri molti avrebbero catalogato come alto tradimento oggi diventa motivo di orgoglio: piazzare al Consiglio europeo un portoghese, quello che più di tutti ha interpretato la politica come arte del dialogo, anche quando l’interlocutore è il diavolo.

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