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Nella testa di Yahya Sinwar

"Sinwar non è il più forte, è il più criminale, dentro Hamas c'è chi lo odia per quello che ha fatto ad altri membri del gruppo, inseguendo l'ossessione del tradimento e lo zelo del castigo”.

Micol Flammini

Chi ha conosciuto e interrogato in carcere il capo di Hamas ci racconta il suo piano, la pazienza, l'ossessione per i traditori, la ristrutturazione della società di Gaza, l’uso del sangue di israeliani e palestinesi come armi. Il 7 ottobre non ambiva a distruggere Israele, doveva essere solo l’inizio dell’attacco. La trappola del ragno di Gaza

Appena entrato nella stanza in cui lo attendeva l’agente dei servizi segreti israeliani Micah Kobi, Yahya Sinwar, senza neppure sedersi, disse: “Uccidimi, non ti dirò nulla, voglio essere uno shahid”, un martire. Sinwar aveva ventisette anni, un’ideologia ferrea e un piano chiaro che necessitava di tempo per essere letale contro Israele. Micah Kobi aveva già trascorso molto tempo nella Striscia di Gaza come agente dello Shabak, i servizi segreti interni; aveva conosciuto diversi uomini di Hamas, aveva arrestato leader, miliziani, predicatori, e sapeva che in Sinwar c’era qualcosa di diverso, era spietato, ambizioso, paziente, inflessibile, per nulla sensibile ai richiami del compromesso: “Ucciderti ora sarebbe semplice – gli rispose Kobi – per te sarebbe comodo morire adesso, non soffriresti neppure. Se vuoi che ti uccida devi prima sederti e raccontarmi tutto: chi hai ammazzato a Gaza, chi hai ammazzato in Israele. Tutto”. Mentre Kobi racconta al Foglio il suo primo incontro con Sinwar, ripete le parole con lentezza, sembra che gli siano entrate nel cervello, che non usciranno più, sembra che il suo orecchio continui a ripeterle parecchie volte al giorno, senza sosta, un sottofondo costante della sua vita. “Sinwar mi disse che non mi avrebbe raccontato nulla. Allora io lo portai da Ahmed Yassin”: Kobi aveva arrestato Yassin già nel 1983, quando era a capo del movimento radicale chiamato Mujama al islami che ha preceduto la creazione di Hamas: “Lo arrestai con altre venticinque persone, aveva creato un movimento con lo scopo di uccidere ebrei, leggeva il Mein Kampf di Hitler, predicava in una grande moschea a Gaza in cui accorrevano religiosi e non. Durante le sue prediche parlava del progetto di eliminare Israele, espandersi in tutto il medio oriente e poi punire l’occidente; la gente lo ascoltava mentre professava il suo odio contro gli ebrei, le sue azioni a Gaza erano violente. Pensavo che il suo arresto sarebbe bastato, che Israele avrebbe chiuso con i problemi nella Striscia, invece, due anni dopo, lui e tutti gli altri membri di Mujama al islami vennero rilasciati per l’accordo Jibril: Israele fece uscire dalle carceri più di mille prigionieri per riavere indietro tre israeliani”, i ricordi di Kobi sono tersi, vengono messi in fila come un percorso che ha poi portato al 7 ottobre. L’agente dello Shabak sapeva che liberare Yassin sarebbe stato un errore, si oppose, ma Yassin tornò a predicare a Gaza e due anni dopo fondò Hamas. Al suo fianco c’era un giovane vorace che aveva due ossessioni: educare le giovani generazioni di Gaza a servire i piani di Hamas e dare la caccia a tutti collaboratori di Israele, veri o presunti, per eliminarli nel modo più cruento possibile. Propaganda e castigo, “arrestai di nuovo Yassin nel 1989, era sempre lui il capo, questa volta di Hamas, assieme a lui arrestai altre cinquecentoventi persone, c’era anche Yahya Sinwar”, era lui la novità, “era lui che sussurrava all’orecchio di Yassin”. Kobi li ha conosciuti tutti, uno a uno, Yassin in prigione raccontava molto, raccontava tutto, “mi ha descritto i piani di Hamas contro Israele, poi il 7 ottobre li ho visti applicati, non era cambiato nulla nei loro progetti, c’era tutto l’odio, tutta la determinazione, c’erano le promesse di violenza, stupro, assassinio, e c’era Sinwar che mormorava tutto nelle orecchie di Yassin”. Durante il primo incontro con l’attuale capo di Hamas, dopo che sentì dirsi “Non ti dirò nulla”, Kobi lo prese, lo portò nella cella di Yassin, bastò una fatwa e al ritorno nella stanza dell’interrogatorio Sinwar iniziò a elencare i crimini che aveva commesso, si dilettava nei dettagli, gli ardevano gli occhi: “Iniziarono così le centocinquanta ore che avremmo trascorso insieme”, Kobi a fare domande, Sinwar a sciorinare colpi di machete, strangolamenti, sepolture, vendette. “E’ lui l’uomo che alla fine degli anni Ottanta aveva preso il controllo dell’educazione a Gaza, con lui sono iniziati i campi studio per bambini: voleva sfinirli di propaganda, far crescere le generazioni al gusto di uccidere ebrei”, Hamas doveva essere qualcosa di più di un partito o un movimento, il piano di Sinwar era di trasformarlo in un principio inscindibile dalla Striscia di Gaza, in un sistema che punisce chi non collabora, tutti devono essere connessi: se esiste la Striscia, esiste Hamas; se non esiste Hamas, non esiste la Striscia. Da qui nasce l’idea che il gruppo si sarebbe dovuto occupare di tutto, doveva dare l’idea dell’imprescindibilità: “E’ stato Sinwar a espandere la campagna di reclutamento, ad aumentare i membri di Hamas, è stato Sinwar a prendere gli accordi con l’Iran, a far arrivare addestratori per creare le unità di élite Nukhba. E’ un ottimo reclutatore, è stato in grado di arruolare persone anche mentre era in carcere in Israele”. Secondo Kobi, ha fatto affidamento su guardie israeliane e sul personale della Croce Rossa, ha continuato a coltivare il suo piano a Gaza anche da dentro la prigione, era in grado di corrompere, di farsi servire, di comprare. “Purtroppo non ce ne siamo accorti in tempo, mandava ordini nella Striscia, continuava a comunicare, era dentro, ma aveva il potere di essere fuori, aveva a disposizione il denaro con cui comprarsi chi voleva. Sapeva bene come farsi accontentare anche dagli ufficiali della prigione, riceveva e dava, in prigione ha persino attivato i suoi contatti con l’Iran”. Appena entrato in carcere, Sinwar chiese di essere ucciso, poi capì che doveva soltanto aspettare, che poteva portare avanti il suo piano, costruire il suo progetto oltre l’immaginabile da dentro un carcere israeliano, dove era costantemente sotto osservazione, ma agli occhi tanto intenti a osservarlo sembrava disarmato. 

 


Kobi aveva già sentito parlare di Sinwar prima di incontrarlo, era stato Yassin a parlargliene: glielo descrisse come “l’uomo che ce l’avrebbe fatta”, il più determinato, quello diverso, con un piano differente e i mezzi per realizzarlo. Yassin se ne compiaceva, continuava a essere il capo di Hamas, ma confidava sul giovane per il futuro. “Quando Sinwar entrò nella stanza dell’interrogatorio, quando iniziò a raccontare i crimini commessi con esaltazione, capii che era diverso, quegli occhi da assassino parlavano da soli”. Venne condannato a quattro ergastoli, “continuò a uccidere anche dentro la prigione, recise con la lama di un rasoio la gola di tre palestinesi che era convinto stessero collaborando con noi, non era vero, non collaboravano, ma lui era ossessionato dalle spie, ossessionato dal castigo: il soprannome di ‘macellaio di Khan Younis’ non glielo abbiamo dato noi israeliani, sono stati i palestinesi a chiamarlo così”


Sinwar venne rilasciato nel 2011, nell’ambito di uno scambio dispendioso per Israele che fece uscire dalle sue carceri mille detenuti palestinesi per far tornare il soldato Gilad Shalit, rapito nel 2006: molti dei palestinesi rilasciati hanno preso parte a nuovi attentati, alla pianificazione e all’esecuzione del 7 ottobre. “Non ho potuto fare nulla per impedirlo – Kobi si lamenta – ho conosciuto Sinwar meglio di chiunque altro, meglio dei suoi genitori, l’ho detto, l’ho ripetuto, l’ho sottolineato quanto fosse pericoloso”. Sinwar lasciò Israele, si rinchiuse a Gaza ed ebbe a disposizione tredici anni per creare il piano più doloroso possibile: “Sinwar non è il più forte, è il più criminale, dentro Hamas c’è chi lo odia, tutta la sua famiglia è detestata per quello che lui e suo fratello hanno fatto ad altri membri del gruppo, inseguendo l’ossessione del tradimento e lo zelo del castigo”. 
Ha curato, cesellato, fatto crescere un piano in tredici anni, ha capito che bisognava  trasformare tutta la società di Gaza, che ogni cittadino andava coinvolto o prendendo parte alle azioni contro Israele o nella feroce posizione di vittima, perché lo spargimento di sangue aiuta Hamas, coma ha scritto Sinwar nella sua corrispondenza con altri leader del gruppo: il sangue fa notizia, distrae l’attenzione dai crimini e nessuno si domanda quale disegno ci sia dietro la morte dei civili palestinesi. E’ un calcolo millimetrico, che ha i suoi effetti: sabato 8 giugno, Israele ha liberato quattro ostaggi, tenuti in prigionia per otto mesi e detenuti in un’area civile; i miliziani si sono opposti al salvataggio, hanno iniziato a sparare contro gli ostaggi e gli agenti arrivati a liberarli, Israele ha risposto al fuoco e l’azione ha causato la morte di diversi civili, più di duecento, secondo Hamas. Il sangue ha cancellato l’operazione di salvataggio, ha cancellato le condizioni degli ostaggi, ha cancellato anche l’evidenza del metodo di Hamas di usare la popolazione come scudo. Il sangue si è trasformato in condanna internazionale nei confronti di Israele: Sinwar ha armato l'opinione pubblica e non era un’arma che aveva previsto di usare sin dall’inizio. “E’ stata una sorpresa positiva, lo ha scoperto nel 2021 quanto potesse funzionare, e ne ha fatto una strategia da implementare”. Michael Milshtein è uno dei più grandi esperti israeliani in studi palestinesi, conosce Gaza, anche se oggi, con tutta la distruzione non sarebbe più in grado di orientarsi. Non ha mai incontrato Sinwar, ma ne ha studiato i movimenti, le idee, il modo di ragionare: “E’ un estremista, la sua logica è ideologia, è lontano dal compromesso, vive nel Medioevo, si sente Saladino. E’ un radicale ma questo non vuol dire che non ragioni per obiettivi realistici:  sapeva bene che il 7 ottobre non avrebbe distrutto Israele, infatti non ambiva a questo, voleva distruggere la fiducia dello stato ebraico in se stesso, voleva rompere la società israeliana e il suo patto interno, creare ostilità con i palestinesi, porre fine al dialogo sulla coesistenza. E’ riuscito in molto”. Il 7 ottobre non era il punto di arrivo, era il punto di inizio. 

 


Se Israele negli ultimi anni aveva creduto che Hamas non fosse un problema si deve a Sinwar, tutto il rapporto tra lo stato ebraico e la Striscia di Gaza era basato sulla falsa immagine della “Konceptia”, l’opinione secondo cui ormai il gruppo si stava concentrando su altro: “quando parliamo di fallimento dell’intelligence, parliamo del fallimento di un’opinione basata sulla falsa immagine che Sinwar è riuscito a creare e che ha influenzato tutto il modo in cui Israele prendeva le decisioni politiche e militari”. Accorto, paziente, spietato, convinto che il tempo di Gaza scorra in modo diverso rispetto a quello israeliano, Sinwar era stato scambiato per uno con cui negoziare, era stato abile nel creare questa immagine di leader attento alla politica. Invece per lui contano “l’ideologia, il jihad e la almukawama”, la resistenza. E’ per questo principio che si crede che sia ancora a Gaza, non è uno che abbandona il fronte, “non è il suo dna”, dice Milshtein, che si rammarica di tutti gli errori di valutazione fatti e che si continuano a fare: “Un anno e mezzo fa pensavamo di poter convincere Sinwar a lasciare Gaza come facemmo con Arafat quando accettò di lasciare il Libano. Non c’è modo di convincerlo, non è Arafat, è Hitler, piuttosto muore nel bunker, non lascerà mai le armi. Hamas è Gaza e Sinwar non se ne sarebbe andato e non se ne andrà, è radicato nella Striscia e pronto ad assumersi le glorie e le conseguenze della guerra”. E’ lui che prende le decisioni, che non ama i negoziati se non è lui a dettare le regole, che sa di essere il peso massimo nella leadership di Hamas, consapevole che non verrà mai mollato dagli altri anche se “ci sono disaccordi dentro al gruppo, ma tutti accettano il principio con cui vengono prese le decisioni: lo ‘iijmae, il consenso, secondo il quale quando viene presa una decisione, tutti obbediscono. Ora non puoi fare nulla senza chiedere a Sinwar, ma gli altri non pesano meno, se decidono di accettare le sue condizioni è perché ci credono”. Il capo di Hamas ha in mente una sua idea di vittoria e sa che può ottenerla nonostante la distruzione. Il suo lavoro è stato lento e meticoloso, ha costruito una tela in cui ha attratto Israele, e un modello di potere complicato da sradicare da Gaza. Se Hamas rimarrà al potere nella Striscia, Sinwar rivendicherà un posto nella storia, se ne prenderà il merito, ha messo Gaza in una scatola, ha mostrato ai suoi abitanti che Hamas pensa a tutto, agli aspetti civili, militari, all’istruzioni, alla punizione. Un piano lungo non si scardina con una guerra. “I palestinesi prima o poi chiederanno a cosa è servito tutto, non subito, ma domanderanno il senso della distruzione, a cosa è valso essere trascinati fino a qui”. E se non lo faranno? “Allora non sarà la fine, Hamas manterrà il senso di vittoria, lavorerà al prossimo obiettivo, in Cisgiordania”, risponde Milshtein, senza scommettere sul futuro di Sinwar e convinto che Israele non può fare altro che lavorare a un accordo sul cessate il fuoco per liberare gli ostaggi. 

 


Micah Kobi non aspetta, suggerisce: “Sinwar non deve essere arrestato, deve essere eliminato, non deve avere il tempo di ricostruire la sua rete, il mondo dimentica la crudeltà”. 
 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)