negoziati finti

Ci sono "no" che a Putin piacciono molto e riguardano Kyiv

Micol Flammini

Il metodo negoziale russo delle proposte di pace fatte per essere rifiutate ha una storia lunga tre anni. Nel 2021 il Cremlino chiedeva alla Nato di lasciare la Nato, nel 2024 chiede all'Ucraina di ritirarsi dall'Ucraina

Vladimir Putin arriva in Corea del nord, andrà a rinsaldare la sua alleanza con chi gli fornisce alcune delle armi per continuare la guerra contro l’Ucraina, che non finisce: il fronte non si muove e la possibilità per gli ucraini di colpire obiettivi militari russi oltreconfine ha contribuito a bloccare l’avanzata dispendiosa dell’esercito russo. Dopo la visita “amichevole” a Pyongyang, durante la quale si discuterà anche di accordi tra i due paesi, di un perimetro di alleanze più strutturato, Putin andrà in Vietnam a disegnare la nuova geografia dei rapporti russi determinati dalla guerra che non ha intenzione di far finire. 

Sono trascorsi ottocentoquarantasei giorni da quando il Cremlino ha deciso di invadere l’Ucraina e da allora Vladimir Putin ha ripetuto di essere pronto alla “pace” e di essere costretto nelle sue azioni dalla necessità di proteggere la Russia. Il metodo negoziale del presidente russo non è cambiato da dicembre del 2021 a oggi, è maestro nel formulare proposte sapendo bene che non potranno essere accettate, non cerca una mediazione, si piazza lungo le estremità dell’inammissibile con l’intenzione di farsi dire di “no”. La prima volta che abbiamo visto questo metodo applicato è stato due mesi prima che Putin andasse davanti alle telecamere per annunciare l’inizio dell’“operazione militare speciale”. Quando ormai Mosca aveva ammassato uomini e mezzi lungo i confini ucraini, mentre i leader internazionali andavano a Mosca e si sedevano dall’altro lato del tavolone di marmo per cercare di scovare fino a che punto Putin avesse intenzione di spingersi, i diplomatici russi stilavano le loro condizioni. Dicevano che la Russia si sentiva minacciata e, per liberare Mosca dalle paure relative alla sua sicurezza, l’occidente avrebbe dovuto dare delle garanzie. I diplomatici russi mandarono a Washington un elenco di richieste pretenziose in cui non si esigeva soltanto che l’Ucraina non sarebbe mai entrata nell’Alleanza atlantica, ma si vietava anche di dispiegare forze della Nato in quei paesi che avevano avuto la sventura di fare parte del Patto di Varsavia, come Polonia, Repubblica ceca e paesi baltici, e che da anni invece fanno parte dell’Alleanza atlantica. In cambio Mosca offriva di astenersi dall’uso della forza. Queste condizioni, mandate agli Stati Uniti nel dicembre del 2021, non erano accettabili, Putin lo sapeva bene e non voleva neppure che venissero accettate, il piano di invadere Kyiv esisteva già, voleva portarlo avanti, anche perché convinto che l’esercito russo sarebbe entrato in Ucraina come un coltello nel burro: Kyiv non ha soldati adatti e gli ucraini altro non aspettano che l’arrivo della Russia, avevano valutato i servizi segreti di Mosca. Era tutto sbagliato, Putin si era immaginato una sfilata per le strade di Kyiv a bordo della sua Aurus Senat, ma i soldati russi a Kyiv non ci arrivarono mai. Questo non vuol dire che il Cremlino abbia rinunciato alla capitale ucraina, un paio di settimane dopo l’inizio della guerra, cominciarono i primi colloqui tra ucraini e russi. Il presidente Volodymyr Zelensky era pronto a negoziare, ma voleva un sentiero sicuro che portasse l’Ucraina alla certezza di non essere mai più invasa. Le squadre di negoziatori si incontrarono prima in Bielorussia, poi in Turchia. E’ vero che all’epoca Zelensky era disposto a cedere molto, ma voleva in cambio altrettanto, invece il testo russo – oggi consultabile grazie a un’esclusiva del New York Times – proponeva di gettare le basi per una futura invasione, imponendo all’Ucraina di lasciarsi demilitarizzare e di cedere a un meccanismo di difesa internazionale sul quale Mosca avrebbe potuto mettere il veto. Il piano rispondeva al più semplice dei piani russi: dopo non essere riuscito a ottenere quello che voleva, il Cremlino si proponeva di riprovarci contro un paese disarmato e arrogandosi il diritto di bloccare il sostegno degli alleati di Kyiv. La proposta era impossibile da accettare, Mosca giocava sulla disperazione dell’Ucraina, scommetteva sulla guerra lunga che avrebbe logorato Zelensky e le alleanze internazionali. 

Venerdì scorso Vladimir Putin ha fatto risuonare un nuovo piano per la fine del conflitto. A poche ore dall’inizio del summit per la pace di Lucerna, ha delineato la sua proposta: la guerra verrà sospesa “non appena Kyiv ritirerà le sue truppe” dai territori che Mosca occupa e da quelli che deve ancora occupare – regioni di Donetsk, Luhansk, Kherson e Zaporizhzhia – quando l’Ucraina rinuncerà al suo progetto di aderire alla Nato e quando le sanzioni contro la Russia verranno rimosse. Putin vuole tenere i territori che ha preso con la forza, quelli che ancora non è riuscito a prendere e non vuole dare garanzie all’Ucraina che l’invasione non si ripeterà. L’Ucraina non può accettare, Mosca non vuole neppure che accetti, risponde tutto allo stesso metodo negoziale di Putin che nel 2021, prima di attaccare, proponeva alla Nato di ritirarsi dalla Nato, nel 2022 proponeva a Kyiv di mettere da sola la firma sulla sua futura invasione, nel 2024 propone all’Ucraina di ritirarsi da se stessa. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)