Putin archivia la Flat tax per pagare la guerra in Ucraina

Luciano Capone

L'aumento delle spese militari costringe la Russia ad abbandonare la tassa piatta al 13%, caposaldo ventennale del regime putiniano: si passa a un sistema progressivo con cinque aliquote. In più aumenta l'imposta sulle società dal 20% al 25%

Per i governi è sempre politicamente difficile aumentare le tasse, ma ce n’è uno dove il più grande incremento della tassazione degli ultimi decenni avviene all’unanimità: la Russia. Ieri, infatti, la Duma ha approvato all’unanimità il pacchetto di modifica del sistema fiscale che era stato annunciato mesi fa da Vladimir Putin e poi proposto poche settimane fa dal suo ministro delle Finanze, Anton Siluanov. Si tratta di una svolta epocale, perché la Russia abbandona la Flat tax, introdotta nel primo mandato di Putin e caposaldo del regime per vent’anni. È il prezzo della guerra in Ucraina. Le spese militari corrono e aprono un buco nel bilancio che va ripianato, con una tassazione progressiva.

Le due più grandi novità, che rappresentano un’importante trasformazione del sistema fiscale russo, sono l’introduzione di un'imposta progressiva sui redditi (come la nostra Irpef) e l’aumento dell’imposta sulle società (la nostra Ires). Per quanto riguarda l’imposta sulle persone fisiche, la Russia ha storicamente – dal 2000 – una Flat tax al 13%, che solo a partire dal 2021 ha visto l’introduzione di un’aliquota del 15% sui redditi superiori ai 5 milioni di rubli (circa 50 mila euro annui di reddito).

La nuova riforma prevede, invece, il passaggio a un sistema a cinque aliquote: 13% fino a 2,4 milioni di rubli (25 mila euro); 15% da 2,4 a 5 milioni di rubli; 18% da 5 a 20 milioni di rubli, 20% da 20 a 50 milioni di rubli; 22% oltre i 50 milioni di rubli (circa 500 mila euro). Dall’aumento delle tasse sono esentati i partecipanti all’“operazione militare speciale” (l’invasione dell’Ucraina). Va considerato che il reddito medio in Russia è di circa 900 mila rubli annui (poco sotto i 10 mila euro) e pertanto 2,5 volte meno della soglia del secondo scaglione (che però prima era 5 volte sopra). Secondo le stime del ministero delle Finanze russo, la riforma colpirà il 3,2% dei contribuenti, ovvero circa 2 milioni di lavoratori (su un totale di 64 milioni) con un reddito annuo superiore a 2,4 milioni di rubli.

Sembra un incremento marginale, ma in realtà è una riforma strutturale che avrà un impatto crescente negli anni futuri. Il passaggio a un sistema fiscale progressivo è utilissimo, per il Cremlino, a sfruttare il fiscal drag, ovvero l’aumento del prelievo fiscale dovuto all’interazione tra inflazione e scaglioni con aliquote crescenti: grazie all’aumento nominale dei prezzi, e quindi dei salari, senza fare nulla lo stato incamera una quota crescente di tasse. In un paese come la Russia, con un’inflazione superiore all’8%, vuol dire che nei prossimi anni la quota di contribuenti che pagherà più tasse passando a scaglioni successivi potrebbe salire al 10%.

L’altro importante aumento di prelievo riguarda l’imposta sulle società, che passa dal 20% al 25%, garantendo il grosso delle extra entrate: 1,6 mila miliardi di rubli (quasi 17 miliardi di euro). Inoltre, è previsto un aumento delle tasse sulle estrazioni minerarie. Complessivamente, il pacchetto di riforme fiscali dovrebbe portare il prossimo anno nelle casse del ministero delle Finanze 2,6 mila miliardi di rubli in più (27 miliardi di euro): circa 1,5 punti di pil.

Ma a prescindere dall’impatto economico, la riforma fiscale in Russia segna un rilevante punto di svolta. Nel pieno del terzo anno di guerra all’Ucraina, con le esportazioni di materie prime in calo (si pensi soprattutto al crollo dell’export di gas verso l’Europa), le sanzioni che mordono, metà delle riserve valutarie congelate, il regime inizia ad avere difficoltà ad alimentare la sua macchina bellica.

È vero che l’economia sta crescendo, proprio grazie all’aumento delle spese militari: il governo ha annunciato un aumento del 70% della spesa per la difesa, arrivando a quasi 11 mila miliardi di rubli (115 miliardi di euro). Vuol dire che le spese militari in Russia superano già il 6% del pil, superando la spesa sociale e avvicinandosi ai livelli insostenibili raggiunti dall’Urss al culmine della Guerra fredda, prima di crollare. 

Ma l’iniezione di questa enorme massa di denaro nell’“operazione militare speciale” in Ucraina, se da un lato sostiene l’economia di guerra, dall’altro mette sotto pressione il bilancio statale, con il deficit difficilmente sostenibile per un paese iper sanzionato. Il regime ha finora ripianato il disavanzo in vari modi. A esempio usando le riserve del Fondo sovrano che ha accumulato i proventi da gas e petrolio, che tra l’altro non possono più essere investite come prima sui mercati internazionali dopo che Mosca è stata tagliata fuori dalle sanzioni. O con varie misure una tantum: un’imposta sugli extraprofitti, tasse sulle esportazioni dei settori più in salute e altre misure temporanee. Ma non basta più.  

La riforma fiscale, con la fine della flat tax e il passaggio a un sistema progressivo, segna un cambiamento strutturale e anche simbolico: è la tassa della guerra di Putin.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali