Allo specchio, sulla Manica
Londra esce dalla sbornia brexitara, Parigi entra nella calca estremista
Anche in risposta alla Brexit, in Francia nasceva la presidenza Macron. Oggi Regno Unito e Francia ballano una danza opposta, due paesi strabici che si proiettano verso un futuro invertito. E una differenza fondamentale che riguarda l'Ucraina, e quindi noi
Otto anni fa vinse la Brexit al referendum nel Regno Unito, o meglio vinse l’idea di Brexit, la voglia di liberarsi dal fardello europeo, considerato dal 52 per cento degli inglesi insostenibile, un tuffo nell’ignoto di una ipotesi tanto allettante e liberatoria quanto fantasiosa. Il governo conservatore, con i suoi premier che si sono alternati in modo burrascoso per gestire l’ingestibile, si è ritrovato per anni a dover dare concretezza al bagliore isolazionista, immaginando ponti mai costruiti, frontiere mai ricostituite, muri all’immigrazione mai realizzati, e poi liti su liti, dentro e fuori il partito, il Regno, l’Europa, un caos elettrizzante terminato in un silenzio mesto: trovatelo voi oggi un politico che abbia voglia di discutere della Brexit, Nigel Farage escluso, s’intende. Quel 2016 di stravolgimenti – cinque mesi dopo l’America elesse Donald Trump – portò al di là della Manica, nella Francia dirimpettaia che il divorzio con il Regno non l’ha mai digerito, alla nascita di un movimento e poi di una presidenza, quella di Emmanuel Macron, che s’è avvolta convinta di centrismo europeista.
Oggi Regno Unito e Francia ballano una danza opposta, due paesi strabici che si proiettano verso un futuro invertito.
Il premier britannico Rishi Sunak e Macron hanno avuto lo stesso ardire rapido e dissolutorio: Sunak ha indetto le elezioni con sei settimane di anticipo rispetto al voto del 4 luglio, nello stupore rabbioso dei suoi; Macron ha sciolto l’Assemblea nazionale e annunciato le elezioni legislative con 21 giorni d’anticipo rispetto al primo turno del 30 giugno, nello stupore furibondo dei suoi. Sunak non avrebbe potuto aspettare troppo, si pensava a un voto autunnale, una campagna elettorale estiva in cui sperare che il Labour, avanti da mesi nei sondaggi di una ventina di punti percentuali, si facesse male da solo; invece no, il premier ha accelerato tutto, con una foga che è diventata via via più inspiegabile perché la sua campagna è piuttosto scomposta, cesellata in questi giorni dallo scandalo bizzarro del capo della campagna elettorale del Partito conservatore che si è messo a scommettere, con la moglie candidata tra i Tory, sul giorno delle elezioni (rischia il posto, la faccia è già deturpata). La sbornia brexitara e conservatrice sembra passata e, il risveglio amarognolo sembra aver bisogno di un periodo di solido centrismo, incarnato da Keir Starmer, leader di un Labour rinnovato che si muove cauto contando sul desiderio, misto all’inerzia, di uno swing lontano dai Tory.
Macron, che si è fatto largo in Francia con la sua formula stabilizzante né di destra né di sinistra che è stata confermata nel 2022 con la sua rielezione, è accusato in tutta Europa e anche tra i suoi quadri increduli di essersi trasformato in un piromane, proprio come i brexitari otto anni fa, ma – e non si sa se questo sia più grave ancora – senza lo stesso intento incendiario. Il calcolo presidenziale è stato dettato da un fatto incontrovertibile: Macron lotta con l’estrema destra da sette anni, l’ha tenuta lontana dall’Eliseo ma non dal cuore dei francesi conservatori che si sono trovati senza un partito di riferimento, e piano ma con costanza hanno creduto alla dediabolizzazione di Marine Le Pen e al suo delfino – che scelta azzeccata – Jordan Bardella. L’unico modo, rischiosissimo, per levare la maschera a un processo di normalizzazione, che per ora è solo fatto di parole più melliflue della retorica nera del lepenismo, era ricontarsi in Francia dopo la vittoria del Rassemblement national (Rn) alle europee e mettere l’estrema destra alla prova del governo.
Chi vuole salvare, Macron, sé stesso e il macronismo, qualsiasi cosa diventerà, o la Francia, gettandola in tre anni di discontinuità e altalene ma disegnando la possibilità di disinnescare la miccia lepenista che minaccia l’ordine democratico del paese da ormai un decennio? Considerando il fatto che il calcolo macroniano si è già frantumato nell’impossibilità di creare un fronte anti Rn, come s’era sempre fatto, visto che la sinistra ha creato un Fronte invero innaturale che però piace di più, secondo i sondaggi, del partito di Macron, è difficile trovare qualcuno disposto a minimizzare l’egoismo piromane del presidente. Non lo fanno nemmeno i suoi: il Times di Londra, che con i francesi è sempre feroce, ieri citava la frase di un macroniano: non possiamo rinchiuderlo, questo Macron così irresponsabile?
Così, mentre passa silenzioso l’ottavo anniversario della vittoria della Brexit, i paesi dirimpettai che in questi anni di divorzio si sono litigati pure le capesante della Manica si ritrovano in una rovinosa inversione di tendenze e aspirazioni. Il Regno Unito si sposta verso un centrismo senza azzardi (men che meno europeisti: non è in discussione il reintegro dentro l’Unione europea) e senza guizzi estremisti, checché ne dicano i conservatori incattiviti dalla fine del loro dominio. La Francia si consegna ai suoi estremi, riscoprendo un bipolarismo che non ha più i connotati che aveva prima di Macron, ma è radicalizzato, ideologico, spesso menzognero. Il presidente francese avrà tre anni per far godere e smaltire la sbornia (sempre stando ai sondaggi: fino al primo turno è bene ricordare che l’alternativa macroniana sulla scheda elettorale c’è), ma se si alza lo sguardo dai cortili di qui e di là della Manica, è facile ricordarsi che, per quel che riguarda la tenuta liberale, il Regno Unito pur brexitaro non ha mai fatto mancare il suo sostegno all’unità democratica occidentale contro i regimi e in particolare contro la Russia criminale, mentre la Francia che si prospetta no, non ha valori condivisi di democrazia – e l’Ucraina tre anni di esperimenti estremisti in Europa non può permetterseli.