all'attacco (culturale)
Giornalisti british a capo di testate Usa, un nuovo capitolo nella serie di invasioni reciproche
Gli inglesi sono tornati per prendersi quel che resta di un baluardo della democrazia oggi molto meno influente che in passato, ma pur sempre prestigioso: la stampa. La vicenda del Washington Post riapre il dibattito
A Washington c’è già chi comincia a tirare in ballo il 1814. Paragone storico inevitabile, ogni volta che tra Stati Uniti e Gran Bretagna emerge qualche episodio che riporta alla memoria il ritorno degli inglesi, cacciati dalle colonie alla fine del Diciottesimo secolo per dar vita al grande esperimento repubblicano americano. Stavolta non accadrà niente di lontanamente simile allo sbarco quell’anno delle truppe di sua maestà re Giorgio III, che misero in fuga dalla capitale il governo della giovane nazione indipendente e diedero fuoco alla Casa Bianca e al Campidoglio. Fu una vendetta di Londra contro quella città nata dal niente, disegnata ispirandosi a Parigi (un altro affronto per gli inglesi) e intitolata all’uomo che aveva sconfitto l’impero britannico. Durò poco, il tempo di mettere fine con il trattato di Gand alla guerra anglo-americana. In pochi anni la residenza presidenziale e la sede del Congresso furono ricostruiti più solidi che mai, mentre la copia originale della Dichiarazione d’Indipendenza tornò al suo posto, dopo essere stata messa in salvo per proteggerla dagli invasori.
Ma quell’episodio del 1814 ha sempre lasciato un pizzico di sospetto nei rapporti tra due paesi, il regno e le ex colonie, che comunque si amano molto più di quanto non litighino.
Gli inglesi adesso sono tornati a Washington per prendersi non certo la Casa Bianca, ma quel che resta di un baluardo della democrazia oggi molto meno influente che in passato, ma pur sempre prestigioso: la stampa. A New York hanno avuto successo fin dagli anni Novanta del secolo scorso, piazzando giornalisti e manager british alla guida di network tv e testate prestigiose. Ma New York non è necessariamente l’America, è un luogo cosmopolita che accoglie chiunque e lo fa sentire subito uno di casa. Washington è diversa, è il vero potere ed è sempre stata all American. È anche per questo che da qualche settimana c’è agitazione per l’assalto degli inglesi al giornale di casa, il Washington Post. Il caso è esploso nel pieno di un anno elettorale e sta suscitando moti da guerra d’indipendenza in un giornale già in fibrillazione per il timore di un ritorno alla presidenza di Donald Trump, l’uomo che negli anni del suo primo mandato ha ispirato al quotidiano l’attuale motto scritto sotto la testata: “Democracy dies in darkness” (la democrazia muore nelle tenebre).
Dall’inizio dell’anno il Washington Post, di proprietà di Jeff Bezos, ha come amministratore delegato sir William Lewis, un manager britannico che arriva dai giornali di Rupert Murdoch e prima ancora dal Daily Telegraph. Pochi hanno capito perché il re di Amazon abbia scelto un uomo di Fleet Street per guidare un’istituzione come il quotidiano del Watergate e dei Pentagon Papers, ma per qualche mese la cosa è sembrata funzionare, con Lewis impegnato a far quadrare i conti e il giornale affidato alla sua prima direttrice donna, Sally Buzbee. Ma all’inizio di giugno si è aperta un’improvvisa crisi, con Buzbee che ha annunciato le dimissioni e ha abbandonato nel giro di mezza giornata il suo ufficio, senza troppe spiegazioni.
Dall’inizio dell’anno il Washington Post ha come ad sir William Lewis. Pochi hanno capito perché Bezos abbia scelto un uomo di Fleet Street
Ben presto è emerso che tra lei e Will Lewis si erano create tensioni, per la decisione del Post di raccontare nuovi sviluppi nel vecchio scandalo britannico delle intercettazioni telefoniche alla famiglia reale di cui si era reso responsabile News of the World, il tabloid di Murdoch oggi defunto. Gli sviluppi chiamano in causa anche Lewis, all’epoca un top manager del gruppo del magnate australiano. Ma lo scontro tra il ceo e la direttrice che ha portato alle dimissioni di quest’ultima sarebbe legato non tanto a questo episodio, quanto alla ristrutturazione che Lewis vuole portare avanti al Post. Un’operazione che appare indispensabile alla luce delle ultime cifre, pesantissime, rivelate dall’amministratore delegato: il giornale dal 2020 ha perso il 50 per cento dei lettori e solo nel 2023 sono svaniti 77 milioni di dollari di ricavi.
Fin qui sarebbe stata una normale storia di scontri tra direttori e proprietà dei giornali. Ma Lewis, dopo aver salutato Buzbee e comunicato alla redazione che per qualche mese il suo posto sarà preso dall’ex direttore del Wall Street Journal, Matt Murray (e già questo ha fatto innalzare le sopracciglia a molti: un altro uomo di Murdoch), ha fatto un altro annuncio: “Dopo le elezioni, il direttore del Washington Post sarà Robert Winnett”. Stavolta i giornalisti del Post sono corsi a consultare Google, perché era un nome che non avevano mai sentito. E hanno scoperto che si tratta di un giornalista dal pedigree puramente british, un caporedattore del Telegraph che è un perfetto sconosciuto negli Usa, ma un ottimo amico di Lewis.
Lo stupore si è tramutato in malumore e poi in segnali di rivolta contro l’invasione inglese. Gli echi sono arrivati fino a Londra e la situazione è diventata così tesa che ieri Lewis e Winnett si sono arresi. Il giornalista resterà al Telegraph e il Post dovrà trovarsi un altro direttore dopo la reggenza di Murray. Resta da vedere se a questo punto Lewis sceglierà o meno un altro compatriota.
La vicenda del Washington Post ha riaperto il dibattito negli Stati Uniti sul rapporto con la vecchia Inghilterra. Quella tra Usa e Regno Unito dal secondo dopoguerra a oggi è diventata in politica un’alleanza di ferro e una “relazione speciale”, ma in altri ambiti è ancora oggetto di ampio dibattito culturale: quale delle due sponde dell’Atlantico è quella dominante?
Nel giornalismo c’è senza dubbio un’attrazione americana per i protagonisti del mondo dei media britannici. La Cnn è attualmente guidata dall’ex capo della Bbc Mark Thompson, che in precedenza è stato anche amministratore delegato del New York Times. Il Wall Street Journal è nelle mani, inglesissime, di Emma Tucker. Al comando di Bloomberg News, la testata del gruppo dell’ex sindaco di New York Michael Bloomberg, c’è l’inglese John Micklethwait. Il New York Post di Murdoch è sotto il comando di Keith Poole, cresciuto nei tabloid britannici The Sun e Daily Mail. L’Associated Press, la maggiore agenzia di informazione americana, ha come amministratrice delegata l’inglese Daisy Veerasingham, ex manager del Financial Times. Anche una delle più celebri testate online americane, The Daily Beast, ha scelto di affidarsi a una giornalista britannica, Joanna Coles, per tentare il rilancio dopo un periodo di scarsa rilevanza.
Prima ancora c’era stato il caso dell’anchorman Piers Morgan, volato dall’Inghilterra a New York per prendere il posto alla Cnn di Larry King, uno dei personaggi più celebri del network. Ma l’attrazione fatale tra i media americani e quelli britannici risale in realtà agli anni Ottanta, all’epoca dell’alleanza specialissima sulle due sponde dell’Atlantico tra Ronald Reagan e Margaret Thatcher. E’ il periodo in cui a Manhattan sbarcarono due principesse del giornalismo inglese, chiamate a dare uno spirito nuovo alle testate americane. La prima era Tina Brown, che Condé Nast nel 1984 spostò dalla direzione dell’inglese Tatler a quella di Vanity Fair, aprendo una nuova stagione di innovazione nel giornalismo. La Brown diventerà poi una presenza fissa nei media americani, prendendo la direzione del New Yorker e poi andando a fondare Daily Beast. Passarono quattro anni e fu la volta della seconda principessa dei media: la londinese Anna Wintour, che nel 1988 prese il comando di Vogue e da allora non lo ha più mollato, aggiungendo nel frattempo il ruolo di responsabile dei contenuti globali di tutte le testate di Condé Nast.
Tina e Anna sono in buona parte responsabili dell’innamoramento americano per il giornalismo british. L’attrazione è legata alle caratteristiche diverse che hanno i due ecosistemi dell’informazione. Negli Stati Uniti il giornalismo è una scienza e una missione, vive di rigore accademico sui metodi da usare ed è perennemente impegnato a proporsi come baluardo della libertà e della democrazia. La stampa a New York e Washington si sente parte integrante dell’esperimento repubblicano americano e mette la propria indipendenza sopra qualsiasi altra cosa. A Fleet Street, invece, la cultura giornalistica è diversa, meno ossessionata dal compito di fare da “cane da guardia” del potere e più interessata a intrattenere e proporre contenuti interessanti e coinvolgenti.
Negli Usa il giornalismo è scienza e missione, la cultura giornalistica britannica è meno ossessionata dal compito di “cane da guardia” del potere
Brown e Wintour hanno aperto una porta nella quale dalla Gran Bretagna hanno subito provato a infilarsi in molti. Il più veloce e aggressivo è stato Rupert Murdoch, che inglese non è, ma a Londra ha costruito il suo impero arrivando dall’Australia. La prima preda di Murdoch era stato il New York Post, seguito poi dalla casa di produzione 20th Century Fox, quindi dal lancio nel 1996 di Fox News e infine dall’acquisto di Dow Jones con dentro il Wall Street Journal, affidato a un direttore dal forte imprinting britannico come Gerard Baker. Sulla scia di Murdoch sono poi arrivati il Guardian e il Daily Mail, alla ricerca di spazi di crescita nel bacino dell’enorme pubblico americano.
Negli Stati Uniti invece non c’è mai stato grande interesse ad andare a conquistare Londra, vista come un mercato troppo diverso e difficile per le testate americane. Uno che ci ha provato di recente, fallendo, è l’ex amministratore delegato della Cnn Jeff Zucker, guidando l’offensiva del consorzio RedBird che puntava a comprare due testate storiche britanniche, il Telegraph e lo Spectator. Ma dietro a Zucker non c’erano tanto gli investitori americani, quanto gli emiri di Dubai e il governo di Londra ha bloccato tutto, ritenendo strategico il controllo di una testata conservatrice importante come il Telegraph.
In realtà il giornalismo è solo un ambito di nicchia in un rapporto molto complesso tra America e Regno Unito, fatto anche di una certa invidia e un po’ di senso di inferiorità che le ex colonie hanno sempre avuto per il paese da cui si sono staccate.
Per tutto l’Ottocento, dopo il rogo di Washington, ha prevalso il sospetto e la mancanza di fiducia reciproca. Da Londra si guardava con orrore e superiorità a tutto ciò che avveniva oltre oceano, ritenendo gli Stati Uniti un luogo volgare. Gli americani venivano visti come quelli che rovinavano le tradizioni dell’impero, incluse quelle sportive, trasformando il cricket in baseball e il rugby in football. All’inizio del Novecento per gli inglesi fu uno shock vedere il proprio sovrano, Edoardo VIII, abdicare al trono per poter vivere con la moglie americana Wallis Simpson (imitati un secolo dopo dal principe Harry e dalla moglie Meghan Markle).
A cambiare le cose fu Winston Churchill, che univa in sé il fatto di essere l’erede dal lato paterno dell’aristocrazia dell’Oxfordshire e nello stesso tempo il figlio di un’ereditiera americana. La minaccia di Hitler spinse Churchill a costruire un’alleanza strategica duratura con gli Stati Uniti, attraverso il suo intenso rapporto personale con il presidente Franklin D. Roosevelt. I due statisti negli anni della guerra divennero anche amici, lasciando in eredità aneddoti di ogni tipo che hanno segnato i rapporti tra i due paesi. Come quella volta che Churchill era in visita alla Casa Bianca e Roosevelt entrò all’improvviso nella camera dell’ospite per parlargli, trovandolo completamente nudo dopo essere uscito dalla vasca da bagno: “Come vede presidente – rispose l’impassibile Churchill, sempre pronto alla battuta – noi inglesi non abbiamo niente da nasconderle”.
Dopo la vittoria contro i nazisti e all’inizio della Guerra Fredda, fu sempre il primo ministro britannico a proclamare quella che da allora in poi sarebbe stata una “special relationship” tra i due paesi: lo fece nel 1946 a Fulton, nel Missouri, nel celebre discorso alla presenza del presidente Harry Truman in cui coniò anche, per la prima volta, l’espressione della “cortina di ferro” calata sull’Europa. Da allora prese il via il lavoro congiunto di intelligence tra la Cia e l’MI5 e MI6 britannici, proseguito per tutti i decenni del confronto con il blocco sovietico. Con alti e bassi e con momenti di vera crisi: per esempio quando Kim Philby, la superspia britannica al servizio dei russi, divenne il capo dello spionaggio inglese a Washington e svelò a Mosca un gran numero di operazioni sotto copertura della Cia.
Sospetto e diffidenza durano per tutto l’800. Poi Churchill proclamò la “special relationship” tra i due paesi. L’amicizia con il presidente Roosevelt
A livello di leader, il feeling nato tra Churchill e Roosevelt si rivide all’epoca della coppia Reagan-Thatcher e poi negli anni Novanta con Bill Clinton e Tony Blair, quando il brand della “Cool Britannia” conquistò anche la cultura americana, con Tina Brown e Anna Wintour che erano già all’opera come ambasciatrici in America del lifestyle inglese.
Ma le vere ondate di invasione reciproca sono state, nel Novecento, soprattutto quelle legate alla cultura popolare e in particolare alla musica. Il blues e il jazz conquistarono Londra, seguiti dal rock ‘n’ roll di Elvis Presley. Subito dopo però furono gli inglesi ad avere l’America ai loro piedi grazie ai Beatles e ai Rolling Stones, seguiti da un’ondata di artisti che va da Elton John a David Bowie e oggi a Ed Sheeran o i Mumford & Sons.
Vere ondate di invasione reciproca sono state quelle legate alla cultura pop. Il blues e il jazz conquistarono Londra, poi fu il turno degli inglesi
Niente forse racconta meglio il botta e risposta tra i due mondi anglosassoni – con gli inglesi molto spesso apripista e gli americani a inseguire – come due grandi eventi musicali degli anni Ottanta all’insegna della solidarietà con l’Africa. Il primo fu il “Live Aid” inventato da Bob Geldof, con un doppio concerto al Wembley Stadium di Londra e in uno stadio di Filadelfia a cui presero parte i più grandi artisti britannici del momento, da Mick Jagger a David Bowie, Paul McCartney, Phil Collins, Eric Clapton.
Per non essere da meno (ma sempre inseguendo), gli americani risposero con “We are the world”, il brano registrato in una notte dalle maggiori star americane, da Michael Jackson a Bob Dylan, Bruce Springsteen, Tina Turner, Dionne Warwick, Ray Charles, Stevie Wonder, Lionel Richie e moltissimi altri. Ma per non far fallire il progetto – come racconta uno straordinario documentario voluto da Richie, appena uscito su Netflix – fu necessario far volare da Londra a Los Angeles l’inglese di adozione (è nato in Irlanda) Bob Geldof, per vincere l’egocentrismo dei grandi divi americani, parlare loro di Africa e spiegare qual era il motivo vero per cui dovevano cantare insieme. Una special relationship è fatta anche di eventi epocali come questi.