Narendra Modi - foto via Getty Images

le prospettive

Narendra Modi vola dal suo amico Putin, ma in fondo abbraccia l'America

Carlo Buldrini

L’India vuole continuare a fare l’equilibrista attraverso la sua politica del "multiallineamento", che fin qui gli ha permesso di siglare importanti accordi con gli Stati Uniti nel settore della Difesa. Ma ora la sua maggioranza è cambiata: ci riuscirà?

Il Rashtrapati Bhavan – noto per essere composto da 340 stanze – fu costruito a New Delhi per ospitare il viceré britannico dell’Impero dell’India. Ottenuta l’indipendenza, Gandhi chiese di trasformarlo in un ospedale. Nel 1950 è  diventato invece la residenza ufficiale del presidente della Repubblica indiana. È lì che una ventina di giorni fa, in una cerimonia all’aperto di fronte al sontuoso palazzo, Narendra Modi e i ministri del nuovo governo hanno giurato nelle mani della presidente, la signora Droupadi Murmu. Nell’esecutivo precedente del governo Modi, tutti i 27 ministri appartenevano al Bharatiya Janata Party (Bjp). Questa volta invece, Modi è stato costretto a scendere a patti con i partiti alleati. Ha tenuto per sé i “big four” (Difesa, Finanze, Interni ed Esteri), ma ha dovuto cedere cinque dei 30 nuovi ministeri ai partiti che, con il Bjp, formano la National Democratic Alliance (Nda).
 

Il Modi 3.0 – così come viene chiamata la nuova legislatura – avrà due importanti cani da guardia: i partiti regionali che costituiscono la Nda e il Rashtriya Swayamsevak Sangh (Rss) la “casa madre” del Bjp. Fin dal gennaio scorso, Rss e Bjp erano arrivati ai ferri corti. Una intervista rilasciata all’Indian Express il 17 maggio, in piena campagna elettorale, aveva poi fatto precipitare la situazione. Il presidente del Bjp, J.P. Nadda, alla domanda di come si fossero evoluti i rapporti tra Rss e Bjp fin dai tempi del primo governo color zafferano (quello di Atal Behari Vajpayee del 1998), aveva risposto: “Allora eravamo meno capaci, piccoli e avevamo bisogno dell’Rss. Oggi siamo cresciuti e più capaci. Il Bjp adesso si sa gestire da solo”. È facile immaginare come queste parole abbiano fatto infuriare i vertici dell’Rss nella loro sede di Pune. L’Rss l’ha fatta pagare cara al partito di Modi. Si è disinteressato della recente campagna elettorale con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti. In una dichiarazione allo stesso Indian Express del 7 giugno scorso, un importante membro del Bjp che ha chiesto  l’anonimato ha detto: “Il Bjp non può sopravvivere senza il Sangh (l’Rss). Se il Sangh ritira il suo appoggio, il Bjp non è in grado di reggersi in piedi da solo. Adesso che il partito l’ha capito, i rapporti tra il Sangh e il Bjp miglioreranno e non ci sarà più uno scontro tra i due”.
 

A poco più di due settimane dal suo insediamento è più facile capire cosa cambierà e cosa non cambierà nel programma del nuovo governo di coalizione di Modi. Per esempio saranno depotenziati i provvedimenti che Modi aveva pensato per rendere il suo governo onnipotente. Con ogni probabilità non sarà più introdotta la legge (Ucc) che rendeva uniforme il codice civile indiano. Questa legge avrebbe colpito in particolare la comunità musulmana che segue regole dettate dalla propria tradizione e dalla propria religione. (In Bihar la comunità musulmana è molto numerosa e vota per il partito di Nitish Kumar che oggi fa parte del nuovo governo). Verrà accantonata anche la radicale trasformazione del processo elettorale indiano che stava tanto a cuore a Modi. Questa riforma prevedeva l’elezione simultanea del Parlamento nazionale e delle Assemblee legislative dei vari stati. La legge mirava a favorire il partito di maggioranza del governo centrale a discapito dei partiti regionali. Sarà sospesa anche l’idea di ridisegnare i confini delle circoscrizioni elettorali, che assegnava più parlamentari nella Lok Sabha di New Delhi agli stati del nord del paese dove la popolazione continua a crescere senza controllo e penalizzava quelli del sud che hanno invece adottato una politica di rigoroso controllo delle nascite.
 

Nel nuovo governo Modi rimarrà invariata la politica estera (il ministro Subrahmaniam Jaishankar è stato riconfermato). È solo così che può funzionare il “multiallineamento” di Modi, quello che gli permette di siglare importanti accordi con gli Stati Uniti nel settore della Difesa. Il vicesegretario di stato Kurt Cambell e il consigliere per la sicurezza nazionale di Biden, Jake Sullivan, sono appena tornati da un viaggio a Delhi il cui obiettivo era proprio rafforzare la cooperazione anche tecnologica e di Difesa. Il multiallineamento di Modi, però,  allo stesso tempo gli permette, in virtù della sua indipendenza in politica estera,  di  violare le sanzioni internazionali imposte a Mosca dai paesi democratici, importando dalla Russia petrolio grezzo a prezzi di favore. E il Cremlino ha confermato che Modi andrà a Mosca da Putin a breve, nella prima visita sin dalla guerra in Ucraina che rischia di aggravare l’equilibrismo indiano. Perché in un mondo sempre più polarizzato, questo gioco di Modi potrebbe diventare sempre più difficile da praticare. Il 13 maggio India e Iran hanno firmato un accordo di 10 anni per lo sviluppo del porto iraniano di Chabahar, all’imbocco del Golfo di Oman. Gli Stati Uniti hanno immediatamente reagito ricordando all’India che “chiunque intende stipulare accordi con l’Iran corre il rischio di subire sanzioni”. La politica estera opportunista dell’India ha fatto sì che quello che viene chiamato il Sud globale, che rifiuta una guida cinese, non veda neppure possibile una leadership indiana.
 

Sulla politica economica, il Modi 3.0 porterà avanti il programma chiamato “Viksit Bharat”, lo sviluppo dell’India. Modi vuole far diventare l’India, al termine del suo nuovo mandato, la terza economia del pianeta, superando sia il Giappone sia la Germania. La crescita del pil indiano dell’èra Modi è stata guardata con  ammirazione dagli osservatori occidentali, che hanno finto di non vedere che, all’inizio degli anni 90, il reddito pro capite dell’India era al 161esimo posto nel mondo e oggi, 30 anni dopo, è al 159esimo. Diceva provocatoriamente il famoso sindacalista indiano George Fernandes, uno dei maggiori oppositori dell’Emergenza di Indira Gandhi: “Se non dà una vera risposta ai problemi della povertà e della disoccupazione, lo sviluppo non serve”.

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