L'editoriale dell'elefantino
Niente monumenti per Assange
Lui, Chelsea Manning ed Edward Snowden sono colpevoli e liberi, ma eroi della libertà e dei diritti umani e della pace, questo forse no. Sono pur sempre ficcanaso che odiano il nostro modo di vivere
Colpevole e libero. Perfetto. Patteggiamento giudiziario. Niente di eroico, ma soddisfacente infine, dopo molti anni di reclusione e una lunga saga legale. Gli era già successo in Australia per un altro reato dello stesso genere. Julian Assange si era messo in un brutto pasticcio e ha pagato caro il suo hackeraggio ai danni della difesa e della sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Chelsea Manning, la donna analista dell’intelligence Usa che gli ha fornito in abbondanza materiale per il suo Wikileaks, fu graziata da Obama nel 2017, quando lasciò a Donald Trump la Casa Bianca. Un altro collaboratore di Assange, consulente dell’intelligence americana fattosi spia o whistleblower, Edward Snowden, uno che ha contribuito al successo di The Donald diffondendo la mail di Hillary Clinton in campagna elettorale per conto dei russi, vive a Mosca e si è naturalizzato russo, è sotto la protezione di Putin, uno che ama impicciarsi dei dati del nemico occidentale e democratico e adora gli impiccioni che gli servono e lo servono. Assange vivrà invece in Australia, paese d’origine il cui governo laburista infine gli ha dato una bella mano, d’accordo con la giustizia americana, per uscire dalle peste, insieme a una campagna internazionale per la libertà di espressione e di stampa. Tutti e tre i leakers sono colpevoli e liberi, ma eroi della libertà e dei diritti umani e della pace, questo forse no.
Il giornalista di suo è un po’ spia, tratta notizie anche riservate. Può farlo assumendosene la responsabilità professionale e civile, nell’ambito di una difesa liberale e libertaria della democrazia politica, l’unico sistema che consente ai giornalisti e ai loro editori di vivere e prosperare con la loro ambigua deontologia, oppure in maniera selvaggia, commettendo reati contro la sicurezza che devastano il segreto di stato in maniera rischiosa e senza filtri diversi dal personale narcisismo, in genere ispirati dall’interesse dei nemici della democrazia e autocrati militanti.
I giornalisti del New York Times nel 1971 vagliarono per settimane un corposo dossier, i Pentagon Papers, raccolto dall’economista e consulente del ministro della difesa Robert MacNamara, Daniel Ellsberg. In una dialettica costituzionale con le corti e il potere politico, in un titanico sforzo legale di affermazione della libertà di stampa, il materiale vagliato fu pubblicato e dimostrò una brutta cosa ovvia, che la guerra è una cosa sporca, che obbliga a violazioni delle regole. Ma tutto questo, come avvenne l’anno seguente anche per il Watergate di Bob Woodward e Carl Bernstein, del Washington Post, fu un esplosivo scandalo della e nella democrazia, con effetti formidabili e sotto il controllo dell’opinione pubblica e, di nuovo, delle corti.
I casi Assange, Manning e Snowden sono diversi. I leaks, quando la notizia riservata viene spifferata da una fonte attendibile o quando un documento riservato viene reso pubblico dopo un esame di attendibilità e di circostanza, possono essere utili al giornalismo in democrazia. Ma il giornalismo è un sistema di controllo culturale e politico e civile sotto lo sguardo dell’opinione e della legalità costituzionale, e del codice. Se il leak diventa tutto, automatismo digitale e delazione a tradimento, e se nasce e fa fortuna nell’interesse dei nemici della democrazia, con gravi pericoli per chi la difende anche con il segreto, ci vuole una bella faccia tosta per spacciare questa paccottiglia per giornalismo di denuncia. Assange se l’è infine cavata, come i suoi omologhi prima di lui. In democrazia la giustizia (colpevole) e la grazia (libero) possono procedere di pari passo, e devono. Ma prima di erigere un monumento ai ficcanaso che odiano il nostro modo di vivere e di sostenere anche con la forza necessaria le nostre libertà, che altrimenti farebbero la fine che fanno nei paesi autocratici, bisogna pensarci due, tre, cento volte.
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