anatomia di un prigioniero

Evan Gershkovich nella "banca degli ostaggi" di Putin

Il rapporto di Mosca con il giornalismo è lo specchio delle sue relazioni con l'occidente

Micol Flammini

È iniziato il processo per spionaggio contro il giornalista americano. Ecco con chi può scambiarlo il Cremlino

Evan Gershkovich è ricomparso: con i capelli rasati, dimagrito, con un  sorriso ironico. Il giornalista del Wall Street Journal sembrava un ectoplasma nella gabbia di vetro in cui ha dovuto assistere alla prima udienza del processo russo contro di lui per spionaggio. Per qualche istante le telecamere lo hanno inquadrato, i fotografi ammessi in aula lo hanno fotografato, era lontano, si poteva vedere ma non toccare, era risucchiato in quella gabbia che sembra un acquario: lo spazio pubblico in cui ci siamo abituati a vedere gli oppositori di Vladimir Putin. Gershkovich è stato arrestato nella città russa di Ekaterinburg, dopo un anno Mosca ha formalizzato le accuse di spionaggio, un capo di imputazione fabbricato che potrebbe portare a una condanna altrettanto fabbricata: vent’anni. Il giornalista rifiuta le accuse, non è una spia, indagava per il Wall Street Journal, non per la Cia, l’agenzia di intelligence americana. Dietro al vetro tutti finiscono per assomigliarsi: Gershkovich, gli oppositori politici Vladimir Kara-Murza e Ilya Yashin, il fisico Oleg Orlov, il poeta Artem Kamardin, la poetessa Evgenia Berkovich. Alexei Navalny stesso assomigliava a tutti loro: la condizione del prigioniero del regime muta la fisionomia, spuntano tratti simili, lineamenti diversi uniformati dal vetro dell’acquario degli imputati. 

Il processo contro Gershkovich si tiene a Ekaterinburg dove tutto è incominciato, dopo sei anni che il giornalista lavorava come corrispondente nel paese da cui i suoi genitori erano fuggiti. Il giornalismo è un cronometro per misurare il ritmo dei rapporti tra Mosca e l’occidente: quando la Russia si chiude, i giornalisti sono a rischio e le relazioni con Washington sono ai minimi. Ora è questo momento e  somiglia agli altri che lo hanno  preceduto dalla storia sovietica a oggi. Per Stalin i giornalisti o erano utili alla propaganda del regime o erano spie. Quando l’Unione sovietica si aprì un po’ a chi voleva raccontarla, i corrispondenti potevano essere intimiditi, l’accusa di spionaggio poteva portare all’espulsione. Nel 1986 Nicholas Daniloff, della rivista Us News & World Report, fu arrestato dopo aver incontrato un conoscente russo che gli consegnò un pacco: fu portato nella prigione di Lefortovo, il carcere delle spie e delle leggende macabre che anche Gershkovich conosce, fu tenuto in arresto per due settimane e infine scambiato per una spia arrestata negli Stati Uniti. All’epoca in molti sospettarono che il suo arresto e l’accusa pesante furono uno stratagemma per ottenere uno scambio di prigionieri. 


Gershkovich è finito nella “banca degli ostaggi”, assieme al marine americano Paul Whelan arrestato a Mosca nel 2018 con la stessa accusa del giornalista. Anche questa volta, come accadde con Daniloff, Mosca sta mettendo da parte prigionieri per avere indietro qualcuno detenuto nelle carceri americane o europee, come Vadim Krasikov, arrestato a Berlino per l’omicidio di un ex combattente ceceno nel parco Tiergarten. I processi sono lunghi, più trascorre il tempo più le pressioni sono forti. Con la sua politica dei prigionieri usati come merce di scambio, il Cremlino ha già ottenuto  risultati anche di  recente: nel 2022 venne arrestata la cestista americana Brittney Griner accusata di aver introdotto droga in Russia, venne scambiata  con  Viktor Bout, il trafficante d’armi più famoso al mondo, per anni al secondo posto nella lista delle persone più ricercate dagli Stati Uniti. Al primo posto c’era Osama bin Laden, il capo di al Qaida che organizzò l’attacco contro le Torri gemelle e il Pentagono nel 2001. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)