pluralismo

Il nuovo codice dei media di Viktor Orbán

Micol Flammini

Le intimidazioni di Fidesz contro Átlátszó e Transparency international Hungary ricordano le leggi contro “gli agenti stranieri” di Mosca e Tbilisi. Sospetti e la paura de 2026

Tutte le ricette antidemocratiche si somigliano, cambiano spesso i tempi, i modi, ma ci sono percorsi che chiunque voglia ridurre la democrazia di un paese rispetta quasi alla lettera. In Ungheria, il premier Viktor Orbán,  che governa ininterrottamente dal 2010 godendo della maggioranza netta del suo partito Fidesz, ha iniziato da tempo a erodere la libertà di stampa e aveva scelto un copione inusuale, mettendo di fatto la maggior parte dei media ungheresi nelle mani di suoi amici molto facoltosi. La tattica era scaltra: non occorreva neppure bandire o chiudere le testate poco amichevoli, era sufficiente metterle nella condizione di avere bisogno di denaro e quindi di un editore vicino  al premier. Con tutta la stampa a favore, con le televisioni e le radio  orbanizzate quanto i giornali, è stato semplice per il premier vincere elezione dopo elezione, non erano neppure necessari brogli in stile russo – nonostante la stima manifesta del  premier ungherese per il capo del Cremlino, il primo ha saputo essere  più sottile del secondo. 


L’erosione della democrazia continua e in queste settimane una ong chiamata Transparency international Hungary e un istituto che si occupa di inchieste, Átlátszó, hanno detto di aver ricevuto una notifica formale in cui veniva reso noto  che erano indagati in quanto organizzazioni che “conducono attività volte a influenzare l’opinione pubblica e la volontà degli elettori, utilizzando il sostegno estero”. A inviare questa notifica è stato l’Ufficio di protezione della sovranità ungherese, un organismo istituito dal premier accusato di controllare gli  attivisti. Nella lettera che Átlátszó e  Transparency international Hungary hanno ricevuto c’è il chiaro riferimento ad attività che godono del  sostegno estero, quindi di  finanziamenti esteri,  e in altri paesi questa accusa  si traduce con la formula “agente straniero”. Orbán è un artista del trucco, sa che il peso delle parole è importante e fa la differenza anche quando la sostanza è la stessa, quindi è  difficile che usi l’etichetta “agente straniero”, come ha fatto Vladimir Putin per soffocare il pluralismo nel suo paese e come ha fatto il partito che governa in Georgia, Sogno georgiano. In Georgia per contrastare la legge imposta dal governo sugli “agenti stranieri” scendono giorno e notte i cittadini in protesta, consapevoli che il 24 ottobre avranno le elezioni legislative e il partito che vuole tenersi stretto il potere è pronto a sanzionare ogni voce contraria: giornali, televisioni, siti, centri studi, ong. Orbán e il primo ministro della Georgia, Irakli Kobakhidze, hanno un ottimo rapporto. Il premier georgiano stima il premier ungherese, hanno le stesse idee sulla guerra della Russia contro l’Ucraina, sono contrari al sostegno a Kyiv e parlano di un partito della guerra che fomenta il conflitto seguendo la propaganda del Cremlino. 


Per la prima volta in più dieci anni, Orbán ha un oppositore in grado di sfidarlo: il suo ex collaboratore Péter Magyar ha fondato in pochi mesi un partito chiamato Tisza, acronimo per Partito del Rispetto e della Libertà, con una campagna elettorale movimentata da  continue manifestazioni contro il premier ha ottenuto il 27 per cento dei voti. Orbán non vuole cedere  spazio, vuole tagliare le capacità di Magyar  pronto a  rendere permanente la campagna elettorale fino al  voto del 2026, portando fuori dall’armadio gli scheletri di Fidesz anche attraverso le accuse di corruzione  indagate proprio dai media che l’Ufficio di protezione della sovranità ungherese accusa di utilizzare “il sostegno estero”. 

  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)