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Dopo il dibattito con Trump i democratici in tumulto valutano un piano b senza Biden

Marco Bardazzi

Il fallimento è stato cosi evidente che l’intero mondo progressista, dalla politica al giornalismo, ha reagito all’unisono: “Non si può andare avanti così”. E in vista della convention dem di agosto, si aprono tre interrogativi: il presidente farà un passo indietro? Chi prende il suo posto? C’è una strategia? 

Cinque minuti dopo Atlanta, il problema è diventato Chicago. Non appena si sono spente le luci sul palco del dibattito presidenziale nel quartier generale della Cnn, si è sentito una specie di collettivo grido di disperazione, neanche troppo soffocato, in tutto il Partito democratico. Il fallimento di Joe Biden è stato così netto, evidente, indifendibile che l’intero mondo progressista, dalla politica al giornalismo, in un attimo ha reagito all’unisono: “Non si può andare avanti così”. E la mente di tutti è corsa a Chicago, dove il 19 agosto si apre la convention che deve nominare il candidato ufficiale del partito. Se qualcosa deve accadere, può accadere solo lì. 

E’ dall’inizio dello scorso anno che in America si fanno scenari per un eventuale ritiro di Biden. Adesso, a 129 giorni dal voto, cambiare sembra quasi impossibile. Ma dopo il dibattito, per molti è inevitabile. E tra le varie alternative, nessuna sembra più praticabile di quella di Kamala Harris, la vicepresidente. La velocità e l’uniformità con cui ha reagito tutto l’apparato democratico rende l’idea di un momento eccezionale, che richiede scelte fuori dagli schemi e senza precedenti.

David Axelrod, lo stratega che portò Barack Obama (e il suo vice Biden) alla Casa Bianca, è stato tra i primi a dire impietoso: “Questa è la notte che conferma le preoccupazioni che avevamo in tanti”, facendo pensare che stesse esprimendo un pensiero anche di Obama. A seguire sono arrivati commentatori di area progressista, ex deputati e senatori democratici e anche diversi membri attuali del Congresso coperti dall’anonimato. Tutti a dire che Biden deve fare un passo indietro. Un amico personale del presidente come Thomas Friedman, editorialista del New York Times, ha spedito al giornale da una camera d’albergo a Lisbona un articolo che suona come un appello al presidente a “salvare il paese”, facendosi da parte. 

E’ un eccesso di panico che si placherà tra qualche giorno, come era successo a febbraio dopo il rapporto di un procuratore che aveva parlato di un Biden “con una memoria che si va indebolendo?” Stavolta sembra diverso e non c’è più il discorso sullo Stato dell’Unione a offrire al presidente un’occasione per rassicurare il paese: il dibattito anticipato a giugno doveva servire a questo scopo ed è andata male per lui.  

Per le regole elettorali, qualsiasi scelta deve arrivare dal diretto interessato: se Biden non decide di ritirarsi, nessuno può costringerlo. Le primarie sono finite, ha raccolto il 95 per cento dei voti e ha adesso circa quattromila delegati che si sono impegnati a votarlo alla convention a Chicago. Poi ci sono settecento “superdelegati”, i notabili del partito, che voterebbero solo nel caso non ci fosse una maggioranza dopo il primo scrutinio. Se Biden facesse un passo indietro, potrebbe indicare un’alternativa, ma i delegati non sarebbero vincolati a seguirlo. Si aprirebbe quindi uno scenario di lotta tra correnti come si è vista l’ultima volta proprio a Chicago, alla convention dei democratici del 1968, avvenuta tra proteste di piazza e manovre politiche. Una ulteriore complicazione è costituita dall’Ohio, che chiude il 7 agosto la registrazione dei candidati, anticipando così drammaticamente i tempi di una scelta che andrebbe fatta in quaranta giorni e poi ratificata dalla convention a Chicago. 

I maggiori interrogativi per un cambio di rotta al momento sono comunque due: chi convince Biden a mollare? E chi emergerà al suo posto? La risposta alla prima domanda prevede varie possibilità. A far pressione sul presidente, noto per la sua testarda convinzione di poter battere Trump, potrebbero essere una delegazione di saggi del partito come Charles Schumer, Nancy Pelosi e James Clyburn. Potrebbe toccare a un team “presidenziale”, con Obama, Bill e Hillary Clinton, Al Gore, John Kerry che si fanno carico di parlargli. Più probabile, e meno irrituale, sarebbe che a prendere l’iniziativa fosse il cerchio magico che lavora con lui da decenni, in particolare Ron Klain, Ted Kaufman e Tom Donilon. Le uniche persone però che forse Biden ascolterebbe sono sua moglie Jill – che gli ha fatto i complimenti in pubblico  – e sua sorella Valerie.

Poi c’è il tema di chi eventualmente candidare. Nomi ne circolano da tempo, come quelli dei governatori Gavin Newsom (California), Gretchen Withmer (Michigan) e Andy Bashear (Kentucky). Ma se si arrivasse davvero a una scelta clamorosa come il ritiro e a Biden fosse chiesto di liberare i suoi delegati, non esistono vere alternative a Kamala Harris. I democratici farebbero fatica a spiegare perché non scelgono una vicepresidente che è già stata candidata alla Casa Bianca e ha la possibilità di diventare la prima donna nera e multietnica a guidare il paese. A meno che non sia Michelle Obama, invocata da più parti, nonostante lei abbia detto in tutti i modi di non voler fare politica. Peraltro Michelle in questi mesi è in rotta con la famiglia Biden per essersi schierata con l’ex moglie di Hunter, sua amica, nella saga legata ai problemi giudiziari del figlio del presidente