La Francia ci riprova. Esaltazioni, errori e fallimenti dei fronti popolari

Siegmund Ginzberg

Non è come il 1936, e per fortuna: le coalizioni fra centristi e sinistra nell’Europa del tempo finirono tutte male. Lezioni dalla storia per il paese che si prepara al referendum pro o contro Le Pen

"Mais où sont les Fronts populaires d’antan?", mi verrebbe da dire parafrasando il verso di François Villon sulle nevi e le dame d’antan, di una volta, del tempo che fu. Ma c’è poco da essere nostalgici. Il Nouveau Front populaire che si presenta a queste elezioni francesi non è il Fronte popolare di una volta. Se lo fosse sarebbero fritti. Il Front populaire che vinse le elezioni del 1936 portando al governo il socialista Léon Blum, il Frente popular spagnolo, il Fronte popolare del nostro 1948, il Fronte popolare con cui andò al governo Imre Nagy nell’Ungheria del 1956, l’Unidad popular di Allende in Cile, oltre a condividere il nome, hanno in comune il fatto che finirono male. Prima che dalle feroci reazioni dei nemici furono demoliti dalla rissosità tra i componenti, e in modo particolare dai colpi e dalla frammentazione a sinistra, dal fatto che non seppero dialogare con il centro, dividevano anziché unire, spaventavano l’altra metà del paese, non avevano la minima idea sul che fare in economia, erano divisi (o addirittura stavano dalla parte sbagliata) in politica internazionale. Non per niente, nel 1973 Enrico Berlinguer si era guardato bene dal parlare di Fronte popolare. Parlò invece di compromesso storico…

  
In Francia, i giochi non si faranno domenica 30 giugno. Si faranno al secondo turno, domenica 7 luglio. È lì che, collegio uninominale per collegio uninominale, si deciderà la partita, quanti dei 577 seggi in palio andranno a chi. Per essere eletti al primo turno bisogna ottenere più del 50 per cento dei suffragi espressi, con una partecipazione di almeno il 25 per cento degli aventi diritto. Altrimenti si va al secondo turno. Il ballottaggio non è solo tra primo e secondo arrivati, ma tra tutti quelli che abbiano ottenuto almeno il 12,5 per cento dei voti degli iscritti alle liste. La partecipazione quindi è determinante. Con una partecipazione al 50 per cento, un candidato avrà bisogno almeno del 25 per cento per passare al secondo turno. Se la partecipazione è del 60 per cento, gli basterà il 20,8 per cento, e così via. Alle europee la partecipazione era stata del 51,5. Ancor più che in altri sistemi elettorali, sarà l’astensione a decidere.

  
Ci potranno quindi essere non solo duelli, ma anche “triangolari”. In teoria anche “quadrangolari”. Nelle precedenti legislative del 2022 c’erano stati 7 triangolari. Nel 1997 c’era stato un record di triangolari: ben 79. Alle europee del 9 giugno, con una partecipazione debolissima, il Rassemblement national (Rn) di Jordan Bardella aveva ottenuto il 31,4 per cento dei voti espressi, arrivando primo nel 90 per cento dei comuni e in 92 dei 96 dipartimenti. Risultato strepitoso, che doppiava le percentuali dei macroniani. Assolutamente in testa quindi, ma con appena il 16 per cento dei voti degli aventi diritto. Rn alle europee ha ottenuto 7,8 milioni di voti, 2 milioni di voti in più rispetto alle europee del 2019. Ma 5,5 milioni di voti in meno che al secondo turno delle presidenziali del 2022. Impressionante se si dà un’occhiata alla mappa: tutta la Francia risulta colorata di blu (il colore di Rn della Le Pen), con un solo puntino di colore diverso in corrispondenza di Parigi.

  
Le europee erano elezioni proporzionali, con un turno secco. In queste legislative, anche se i candidati di Rn arrivassero ovunque in testa al primo turno, dovranno vedersela al secondo turno con tutti gli elettori che non li vogliono al governo. Indipendentemente dalle indicazioni di voto dei partiti (peraltro contestate, come nel caso dei voti promessi a Rn dal gollista Ciotti). A differenza di chi tifa per loro fuori dalla Francia, nel partito se ne rendono ben conto. Marine Le Pen si era guardata dal candidarsi alle europee, non le è passato nemmeno per l’anticamera del cervello di candidarsi premier alle legislative. C’è chi ipotizza che l’abbia fatto per scaramanzia: non è mai successo che un premier francese poi riesca a fare il presidente della Repubblica. Ed è noto che l’ambizione della Le Pen è andare all’Eliseo. Ma ha un problema: Rn continua ad essere incompatibile con altre forze, anche di destra. Non gli basta essere primi. Devono poter fare una coalizione. Farla davvero. Non gli basta che tra i centristi ci sia chi ne muore dalla voglia. L’Italia è al momento un’eccezione. Difficile che in Francia Rn riesca a quagliare una coalizione di governo, anche se avesse i numeri. E’ questa probabilmente la ragione per cui Jordan Bardella ha detto che non farà il primo ministro, a meno che non abbia la maggioranza assoluta. “Tanto non è matura”, come disse la volpe che non riusciva a raggiungere l’uva.

 
Il salto riuscirebbe solo se domenica 7 luglio, al secondo turno, una parte consistente degli elettori che al primo turno voteranno per la sinistra decidessero di non turarsi il naso, preferissero andare al mare, o addirittura votare per il candidato lepenista piuttosto che per la coalizione in cui c’è anche lo scostante populista di ultra-sinistra Jean-Luc Mélenchon. È il doppio turno, bellezza! Conta il voto contro, non solo quello per. Il 41 per cento degli intervistati nell’ultimo sondaggio prima dell’apertura delle urne risponde che in un duello al secondo turno tra Rn e Fn sceglierebbe il candidato della destra, il 34 per cento sceglierebbe il candidato di sinistra. Meno dubbi nel caso il duello fosse tra Rn e l’alleanza macroniana: il 44 per cento voterebbe per il centrista, il 36 per cento per quello della destra. 

  
Tecnicamente, queste elezioni francesi non sono una scelta tra diversi contendenti. Sono un referendum pro o contro Le Pen. E i referendum in genere non favoriscono chi entra nell’agone con la corona del vincitore. Quelli contro, nella loro diversità e frammentazione, saranno sempre di più. Rn ha già avuto tanto. Non è detto che abbia raschiato il fondo del barile. Potrebbe avere anche di più, magari molto di più. Dipenderà dalla partecipazione. Si tende a dare per scontato che arriveranno primi. Ma non è detto. Il cosiddetto “problema dei tre corpi” in meccanica classica – reso celebre dai romanzi di fantascienza del cinese Liu Cixin – ha fatto impazzire generazioni di matematici. Semplicemente non è possibile, date la posizione iniziale, la massa e la velocità di tre corpi soggetti all’influsso della reciproca attrazione gravitazionale, calcolare l’evoluzione futura del sistema da essi costituito. Con quel magro 16,5 per cento di suffragi degli aventi diritto al voto ottenuto alle europee, Rn potrebbe fare l’en plein di deputati solo nel caso che stravincesse il partito dell’astensione, del disinteresse e del disgusto per la politica e i politicanti. Come andrà ovviamente lo sapremo solo all’indomani del 7 luglio. Sappiamo però come andò le altre volte.

  

Nel 1937 Max Ernst dipinse il suo Angelo del focolare. “L’ho dipinto dopo la caduta dei Repubblicani in Spagna. Era la mia impressione di ciò a cui il mondo stava andando incontro” 
   
La coalizione che vinse le elezioni del maggio 1936 non si chiamava nemmeno Fronte popolare, ma Rassemblement populaire. Comprendeva non solo le sinistre ma anche i radicali, centristi da sempre divisi tra di loro sul se allearsi con la destra o la sinistra. Era stata trainata dall’unità tra i sindacati, che allora contavano. E furono a loro volta beneficiati: dal marzo 1936 al marzo 1937 gli iscritti alla Cgt (la Cgil francese) sarebbero balzati da 1 a 5 milioni. Avevano un programma comune, il cui fulcro era la difesa della democrazia, della Repubblica e della sua Costituzione. Oltre che la simpatia per le rivendicazioni operaie (che facevano però a pugni con quelle degli agricoltori, dei commercianti e, naturalmente, dei rentiers). Al secondo turno, in giugno (c’erano stati ballottaggi in tre quarti dei collegi), il centrosinistra ebbe una maggioranza di 336 seggi, contro i 258 del centrodestra. I socialisti, che allora si chiamavano Section française de l’International ouvriere (Sfio), erano diventati il primo partito. Per cui toccò a Léon Blum, che non se lo aspettava, formare il governo. Rispetto alle precedenti politiche del maggio 1932, i radicali avevano perso 51 seggi, passando in seconda posizione nella coalizione. Comunisti e sinistra varia avevano guadagnato ben 75 seggi. I comunisti votarono la fiducia, ma non entrarono nel governo. Quando in giugno si insediò il governo Blum, la Francia era ancora completamente paralizzata da uno sciopero generale a oltranza. Centinaia di grandi fabbriche erano occupate. Il primo grande successo del governo del Fronte popolare fu invitare le parti sociali a Palazzo Matignon, sede del primo ministro, e costringerle a un accordo. 


L’accordo prevedeva aumenti salariali del 7 per cento per i meglio pagati e del 15 per cento per i meno pagati. Introduceva la settimana di 40 ore e, per la prima volta al mondo, le ferie pagate (e obbligatorie, non rinunciabili). Tutelava i lavoratori immigrati, i più sfruttati e peggio pagati (gli italiani erano stati per decenni quelli trattati peggio). Introduceva  contratti collettivi e rappresentanze dei lavoratori in tutte le imprese con più di dieci dipendenti. Rafforzava la prevenzione degli incidenti sul lavoro. Sciolse le leghe, che nel 1934 si erano scagliate contro la democrazia parlamentare, i politici corrotti, i partiti, gli ebrei, e gli immigrati. Ma quelle si trasformarono da movimento in partito. L’estrema sinistra gridò alla “rivoluzione tradita” (tradita a loro dire da Blum e dai comunisti). Il comunista Thorez gli rispose, con un frase lapidaria, divenuta celebre, che “gli scioperi bisogna saperli finire”. Era livida una parte del padronato. Soprattutto le piccole imprese che temevano di non farcela (e non era un timore peregrino). Blum avrebbe raccontato poi di aver orecchiato uno degli industriali presenti all’Hotel Matignon dire a un altro: “Come è stato possibile? Come abbiamo fatto a giungere a questo punto? Non avremmo mai dovuto permetterlo…”. Ma ricorda anche che la maggioranza dei suoi interlocutori dalla parte padronale del tavolo lo ringraziarono come loro “salvatore”, perché aveva messo fine agli scioperi.  


In realtà scioperi e occupazioni non erano stati violenti, non si erano svolti in un clima di intimidazione, non avevano portato agli “odii terribili” di cui parla Gramsci a proposito dell’occupazione delle fabbriche a Torino e del biennio rosso 1919-20. Non ci furono vandalismi. Erano stati soprattutto una grande festa, un’allegra esplosione di solidarietà. La festa straripò e proseguì nelle strade dopo la vittoria elettorale. Fu una specie di 14 luglio permanente, di balli e canti. E soprattutto – su questo concordano tutti i testimoni – di gioia, ottimismo, di voglia di vivere e divertirsi, di andare in vacanza, di fiducia nell’avvenire. Non un tempo cupo di astio e recriminazioni.   


Maggio in Francia è le temps des cerises, il tempo delle ciliegie. La canzone che ha lo stesso titolo fu composta da Jean Baptiste Clément, combattente della Comune del 1871 e musicata da Antoine Renard. Clément disse di averla sentita canticchiare da una giovane operaia portaferiti. Si chiamava Louise, è l’unica informazione che ci viene data. Da allora è una delle canzoni più amate. E’ un po’ la loro Bella ciao. Non parla di politica. Parla di gioia, tenerezza, amori. E sconfitte. Di felicità che dura poco (Mais il est bien court le temps des cerises), di “ciliegie d’amore che cadono in gocce di sangue”.


Ci fu invero anche molta retorica, molto ricorso a riti e simboli. Che servirono soprattutto a scollare le alleanze che avevano portato il fronte popolare al governo. E a spaventare la gente. La sinistra aveva importato il saluto col pugno chiuso dalla Germania, dove era nato in risposta al saluto fascista a braccio teso. Poi era diventato epidemico. Con un breve ritorno di fiamma nel ‘68. Non ricordo di aver mai salutato col pugno chiuso (e se mai l’ho fatto l’ho rimosso). Ero del Pci. Non lo facevano né Togliatti, né Amendola, né Berlinguer. Ma lo faceva Pietro Ingrao. Avrebbe avuto ancora più fortuna in Spagna, dove però non portò fortuna alla Repubblica. Blum, visibilmente imbarazzato, si era ritrovato a celebrare la vittoria elettorale in una manifestazione organizzata dai partiti in un teatro straripante di bandiere rosse, risuonante di slogan e di canti rivoluzionari, al grido di “Fronte rosso” (non di Fronte popolare), con il palco dominato da un altro simbolo importato dalla Germania, un gigantesco manifesto raffigurante tre frecce parallele. Sarebbe restato sui manifesti socialisti sino agli anni 70, quando, con un colpo di genio, Mitterrand lo sostituì con la rosa in pugno. Era il simbolo delle formazioni paramilitari della sinistra tedesca. Con quel simbolo, che faceva da contraltare alla croce uncinata dei nazisti, avevano importato anche il suo inventore, il socialdemocratico russo esiliato in Germania Serge Tchakhotine, un allievo di Pavlov, il teorico dei riflessi condizionati.

 

Da ormai un anno al potere in Germania c’era Hitler, e Tchakhotine si era rifugiato in Francia, dove era conosciuto come “le Dr. Flamme”, e insegnava i suoi “nuovi metodi di propaganda, razionalmente e scientificamente stabiliti”. I giovani comunisti e i giovani socialisti avevano dal canto loro importato, sempre dalla Germania, le divise (a dire il vero, il brevetto spetterebbe ai fascisti italiani, in camicia nera). Camicia blu i socialisti, camicia kaki i comunisti. Erano un tantino ridicoli, così come un po’ ridicola fu la moda degli eskimo e del berretto alla Mao con stella rossa nel ‘68. Soprattutto erano in ritardo, fuori tempo, rispetto alle divise e alle simbologie naziste. Se la sinistra insegue la destra in gesti e programmi, è un guaio. Svela la mancanza di idee. E, come i consumatori, gli elettori finiscono per preferire l’originale all’imitazione. 

  
La festa comunque durò poco. Avrebbero ballato una sola estate. Nel giugno del 1937 Léon Blum fu costretto a dimettersi e a passare la mano ai radicali. I quali, come talvolta succede ai populisti “né di destra né di sinistra”, chiesero i voti alle destre anziché alla sinistra. Anche se in Francia non finì subito in tragedia come in Spagna, e poi in Cile. Metà degli intellettuali parteggiavano per il Fronte. L’altra metà per la destra. I surrealisti apparentemente parlavano d’altro. Ma alcuni furono profetici. Ci sono situazioni storiche di cui si può parlare solo in termini di assurdo. E’ nel 1937 che Max Ernst dipinse il suo Angelo del focolare, recentemente esposto a Palazzo reale a Milano. “L’ho dipinto dopo la caduta dei Repubblicani in Spagna. E’ un titolo ironico, per una specie di trampoliere che distrugge e annienta tutto quello che incontra. Era la mia impressione di ciò a cui il mondo stava andando incontro”, avrebbe spiegato. 


Si era incancrenita la crisi economica, fuggivano i capitali, il governo del Fronte popolare si era arenato, malgrado fosse riuscito a far passare ben 133 leggi progressiste nei primi 73 giorni. Aveva il Senato contro, malgrado disponesse di ampia maggioranza alla Camera. Chiese, ma gli negarono i “pieni poteri” per porre fine alla speculazione contro il franco. Preferì dimettersi piuttosto che innescare una crisi costituzionale. Gli aumenti salariali erano stati erosi dall’inflazione. I diritti in fabbrica erano stati a poco a poco rimangiati. Padronato e finanza si erano ricompattati contro. I comunisti lo abbandonarono, dandosi la zappa sui piedi. Non servì che, in omaggio al tradizionale pacifismo assoluto dei socialisti, si barcamenasse in una politica di “non ingerenza” nella guerra civile in Spagna, negando le armi alla Repubblica. Non gli servì a mantenere buoni rapporti con la Germania di Hitler. E neanche quelli con la Russia di Stalin, che stava già preparando il patto scellerato di spartizione della Polonia, e praticamente di tutta l’Europa, con Hitler. Daladier sarebbe passato alla storia come uno dei leader democratici d’occidente che si macchiarono dell’appeasement con Hitler a Monaco. La democrazia e la Costituzione cui teneva tanto, e l’onore della sua Francia, finirono nella spazzatura con il governo di Pétain a Vichy, fantoccio dei nazisti tedeschi. 


Blum fu processato a Vichy. Sostennero, con incredibile faccia tosta, che era stato lui a tradire la Francia, lasciandola indifesa. Tra le colpe aveva quella di essere ebreo, e pure sionista. Già poco prima di diventare primo ministro, era stato aggredito e malmenato da una squadraccia dei Croix de feu. Quand’era a capo del governo, migliaia di libelli, tutti i giornali di destra, ogni santo giorno, denunciavano l’ebreo, il “non francese” che aveva usurpato il potere. “Noi non eravamo come gli altri. Non ci mettevamo sullo stesso piano, allo stesso livello di [bassa] umanità degli altri. Non attaccavamo perché venivamo attaccati, non insultavamo perché venivamo insultati […]. Nella nostra propaganda avevamo ripudiato ogni ricorso a istinti volgari e animaleschi, alla brutalità, alla cattiveria, all’invidia”, avrebbe scritto nelle memorie da carcerato. L’unica autocritica riguarda un eccesso di autocompiacimento: “Eravamo diventati troppo forti, troppo prudenti; ci eravamo adagiati nel tran tran quotidiano. C’era in noi qualcosa da troppo arrivati (quelque chose de trop arrivé)”. Vichy non aveva argomenti per condannarlo. Fece molto peggio: lo consegnò ai tedeschi, che lo rinchiusero con la moglie a Buchenwald. 

 
C’è forse qualcosa di comune tra Blum e Simone Weil, due protagonisti dei giorni del Front populaire d’antan, che più diversi di così non li si potrebbe immaginare: un senso della morale, che sovrasta tutto il resto. L’economia richiede realismo, la politica arte di sapersi destreggiare, forse anche cinismo. Ma senza forti convinzioni morali la sinistra non va da nessuna parte. Blum in quei giorni era a Matignon. La Weil, ragazza di buona famiglia ebraica, intellettuale raffinatissima, aveva scelto di lavorare in fabbrica. Di quell’esperienza scrisse ne La condition ouvriere, libro che nei giorni del liceo avevo divorato, e mi aveva quasi convinto a fare come lei. Ecco come ne scrive in una lettera a un’amica: “Era la mia prima fabbrica. Immaginami davanti a un gran forno, che sputa fiamme e soffi brucianti che mi arroventano il viso. Il fuoco esce da cinque o sei fori situati nella parte inferiore del forno. Io mi metto proprio davanti, per infornare una trentina di grosse bobine di rame che un’operaia italiana, una faccia coraggiosa e aperta, fabbrica accanto a me; sono per il tram e per il metrò, quelle bobine. Devo fare bene attenzione che nessuna delle bobine cada in uno dei buchi, perché vi si fonderebbe; e, per questo, bisogna che mi metta proprio di fronte al fuoco senza che il dolore dei soffi roventi sul viso e del fuoco sulle braccia (ne porto ancora i segni) mi facciano mai fare un movimento sbagliato. Abbasso lo sportello del forno, aspetto qualche minuto, rialzo lo sportello e a mezzo di tenaglie tolgo le bobine ormai rosse, tirandole verso di me con grande sveltezza (altrimenti le ultime comincerebbero a fondere), e facendo anche più attenzione di prima perché un movimento errato non ne faccia cadere mai una dentro uno dei fori. E poi si ricomincia. Di fronte a me un saldatore, seduto, con gli occhiali blu e la faccia severa lavora minuziosamente; ogni volta che il dolore mi contrae il viso mi rivolge un sorriso triste, pieno di simpatia fraterna, che mi fa un bene indicibile. Dall’altra parte, lavora una squadra di battilastra, intorno a grandi tavoli: lavoro di squadra, compiuto fraternamente, con cura e senza fretta. Lavoro molto qualificato, dove bisogna saper calcolare, leggere disegni complicatissimi, applicare nozioni di geometria descrittiva. Più lontano, un robusto giovanotto picchia con un maglio su certe sbarre di ferro, facendo un fracasso da fendere il cranio. Tutto ciò avviene in un cantuccio in fondo all’officina, dove ci si sente a casa propria, dove il caposquadra e il capo officina, si può dire, non vengono mai. Ho passato là 2 o 3 ore a quattro riprese (ci rimediavo da 7 a 8 franchi l’ora: e questo conta, sai!). La prima volta, dopo un’ora e mezzo, il caldo, la stanchezza, il dolore, m’hanno fatto perdere il controllo dei movimenti; non riuscivo più ad abbassare lo sportello del forno. Uno dei battilastra (tutti tipi in gamba) appena se n’è accorto si è precipitato per farlo in vece mia. Ci ritornerei subito in quell’angolo d’officina, se potessi (o almeno appena avessi riacquistato un po’ di forze). Quelle sere, sentivo la gioia di mangiare un pane guadagnato”. Misticismo puro. A cui sono estraneo. Ma sono sicuro che, vivesse oggi, andrebbe a lavorare e a condividere la vita degli immigrati senza permesso di soggiorno, che si ammazzano di fatica a pochi euro l’ora. 

 
Lei, nata ebrea, ad un certo punto si convertì al cattolicesimo. Era pacifista senza se e senza ma. Fuggita in Inghilterra durante la guerra, lì fece la cosa giusta, lavorò per i servizi militari britannici. Faccio fatica a perdonarle però un’altra cosa: l’aver scritto, in un accesso di qualunquismo mistico, un Manifesto per la soppressione dei partiti politici. Non so come voterebbe domenica in Francia. Non ho grilli di misticismo. Né intenzione di convertirmi a qualsivoglia fede religiosa. Posso capire chi è deluso, respinto dalla politica, e magari anche stanco della democrazia. Sono molto più in sintonia con Papa Bergoglio, il quale, nel raccomandare al premier spagnolo Sánchez, venuto in udienza in Vaticano, la lettura del libro di “un intellettuale italiano del Partito comunista” (intendeva chiaramente dire: di un giornalista che un tempo scriveva sul giornale del Pci), il mio Sindrome 1933, gli spiegò che “la politica è la forma più alta di carità”.