in america
Il dramma dei democratici americani
Dopo il dibattito disastroso con Trump, dietro il sostegno ufficiale molti dem non nascondono più le enormi preoccupazioni per come si è messa la campagna. La stampa “amica” ha rotto gli indugi: si ritiri, per il bene del paese
Intorno a Joe Biden c’è un partito che dopo il dibattito disastroso della scorsa settimana sta vivendo un dramma, una crisi di panico e una lotta per il potere. E che ha circa quaranta giorni per prendere una decisione dalla quale dipendono il futuro dell’America e dell’occidente, il contrasto alle minacce di Putin e della Cina, la gestione dell’intelligenza artificiale e la lotta al cambiamento climatico: affrontare Donald Trump con un Biden in affanno, o cambiare candidato all’ultima occasione utile, la convention di Chicago in agosto?
Per capire le diverse anime che si confrontano in questo momento nel Partito democratico, il luogo migliore da cui partire è la Pennsylvania. Uno dei sei stati che nessuno dei due aspiranti presidenti può permettersi di perdere a novembre, forse il più importante e decisivo di tutti.
In Pennsylvania gli esponenti di punta del partito di Biden sono il senatore John Fetterman e il governatore Josh Shapiro. Nel post dibattito, mentre tutto l’ecosistema democratico e progressista distribuito tra network tv, giornali, finanziatori del partito e politici locali è entrato in un frenetico stato di panico, chiedendo apertamente a Biden di rinunciare, Fetterman è sceso in campo con la consueta aggressività per difendere il presidente. “Rifiuto di unirmi agli avvoltoi democratici che si posano sulle spalle di Biden – ha scritto su X –. Nessuno sa meglio di me che un dibattito andato male non è la somma di una persona e dei suoi risultati”. Nel 2022, quando Fetterman era in corsa per il seggio da senatore della Pennsylvania, fu colpito da un ictus e quando si presentò al dibattito con l’avversario, ancora convalescente, fu un mezzo disastro. I media lo diedero per spacciato, i sondaggi lo mostravano perdente. Vinse di cinque punti e fu l’unico seggio in Senato in tutti gli Stati Uniti che i democratici riuscirono a strappare ai repubblicani. Forte di questo precedente, il messaggio che Fetterman ha mandato ai suoi colleghi di partito è stato semplice e diretto: “Datevi una calmata e basta con queste stronzate”.
Sulla carta il governatore Shapiro è d’accordo con lui. Nelle dichiarazioni post dibattito, appartiene al gruppo di alti esponenti del partito che hanno cercato di difendere Biden e il suo lavoro di questi anni. Ma il nome di Shapiro, nello stesso tempo, ha cominciato a circolare tra quelli dei governatori che potrebbero prendere il posto del presidente come candidato democratico alla Casa Bianca, insieme a Gavin Newsom (California), Gretchen Whitmer (Michigan) e J.B. Pritzker (Illinois).
Ciò che stanno vivendo in questi giorni i Democrats è analogo alle posizioni di Fetterman e Shapiro. Ufficialmente, gli esponenti di punta del partito invitano alla calma e a sostenere Biden, sia pure con meno entusiasmo di quanto non faccia Fetterman. Gli ex presidenti Barack Obama e Bill Clinton hanno aperto la strada, ribadendo subito il loro sostegno al candidato nonostante la devastante serata di Atlanta. I leader Dems al Senato e alla Camera, Chuck Schumer e Hakeem Jeffries, sono sulla stessa lunghezza d’onda, insieme a tutto il team della Casa Bianca e del governo. Anche Jaime Harrison, il presidente del Democratic National Committee, ha provato a rassicurare: “Il dibattito è partito un po’ lentamente per il presidente, ma lo ha finito con forza. E mio nonno diceva sempre che non conta come parti, ma dove arrivi”. Quello di Harrison, un afroamericano della South Carolina, è un nome che potremmo sentire molto nei prossimi giorni: formalmente, è lui che guida il Partito democratico e la convention di Chicago.
Ma dietro il sostegno ufficiale, Shapiro e molti altri non nascondono più le enormi preoccupazioni per come si è messa la campagna. E in diversi casi emergono anche le ambizioni personali di chi pensa di potersi far avanti e prendere il posto di Biden nella sfida a Trump. I governatori sono l’esempio più evidente. Newsom era ad Atlanta la sera del dibattito ed è stato il primo ad affrontare le telecamere per difendere Biden. Un lavoro da “surrogato”, come si chiamano gli esponenti di partito che parlano a nome del candidato, che il governatore della California fa da mesi. Sembra un gesto di fedeltà a Biden, ma è servito in realtà a Newsom anche per acquisire uno status nazionale, una forte visibilità, un tono di voce “presidenziale”: se adesso il partito decidesse di cambiare cavallo, lui è in cima alla lista.
I tempi per decidere cosa fare sono strettissimi. La convention per ufficializzare il candidato si apre il 19 agosto a Chicago, ma c’è una scadenza precedente da rispettare: il 7 agosto in Ohio, dove le leggi locali richiedono di presentare entro quella data i nomi da mettere sulle schede elettorali. Quindi ci sono poco meno di quaranta giorni per dar vita a un confronto politico che per ora avviene tutto sottotraccia, perché nessun alto esponente ufficiale del Partito democratico si è fatto avanti ufficialmente per chiedere a Biden di ritirarsi.
Chi invece ha rotto completamente gli indugi è la stampa “amica”, con in testa il New York Times e The Atlantic (le due roccaforti del pensiero liberal americano) e un gran numero di strateghi e analisti vicini ai democratici. I media non avranno più l’influenza del passato, ma tra i democratici restano un termometro importante e il luogo attraverso il quale le varie fazioni si mandano messaggi politici, spesso coperti dall’anonimato.
Nessuno poi è attento a cosa pensano alcuni giornalisti quanto Biden. Da navigato politico che ha trascorso una vita a Washington, il presidente sa annusare l’aria che tira leggendo editorialisti che stima e ascoltando alcuni programmi tv, primo tra tutti “Morning Joe” della Msnbc, condotto da Joe Scarborough. Per questo per Biden deve essere stato particolarmente pesante vedere il coro unanime che si è levato nella stampa progressista per invitarlo a ritirarsi, “per il bene del paese”.
Anche Trump usa i giornalisti ed è ossessionato da quello che scrivono di lui, ma non si lascia minimamente scalfire dalle loro critiche. Diverso è il caso di Joe Biden, un politico che si è sempre considerato sottostimato dai media e che ha fatto di tutto per venir riconosciuto come un protagonista al livello di Obama o dei Clinton. Per questo c’è da capire che peso avrà sulle sue scelte il fine settimana che ha appena trascorso con la famiglia a Camp David, probabilmente leggendo gli inviti a mollare che gli arrivano dall’intero comitato editoriale del New York Times, da editorialisti che stima come Thomas Friedman, Nick Kristof, Maureen Dowd e David Ignatius, dal suo biografo Franklin Foer, che su Atlantic ha lanciato un appello perché “qualcuno tolga le chiavi di casa a Biden”. E dallo stesso Scarborough, che su “Morning Joe” ha chiesto in diretta al presidente di farsi da parte, scatenando una piccola crisi familiare: Mika Brzezinski, la co-conduttrice del programma che è anche sua moglie, si è invece lanciata all’attacco di chi critica Biden e ha accusato il partito di essere un luogo di fifoni e piagnoni senza coraggio.
Diverso è il discorso degli analisti politici democratici che stanno cavalcando l’onda del crescente movimento “Joe, ritirati”. Con loro il presidente ha diversi conti aperti ed è probabile che i loro giudizi abbiano l’effetto opposto di rafforzarlo nel convincimento di essere l’unico in grado di battere Trump. Quelli che da mesi si sono esposti di più nel sostenere che è troppo anziano per farcela sono David Axelrod e David Plouffe, cioè gli strateghi della campagna elettorale 2008 che portò al trionfo di Obama, coloro che suggerirono al futuro presidente di scegliere Biden come vice. Axelrod era in diretta sulla Cnn la notte del dibattito ed è stato il primo a sostenere che quella era la fine della campagna elettorale di Biden. A ruota sono arrivati molti protagonisti dell’ecosistema di pensiero progressista, come Joe Klein e Andrew Sullivan, e anche sondaggisti stimati come Nate Silver (che, come Axelrod, insiste dall’anno scorso sul fatto che candidare Biden era una pessima idea).
Tutto questo crea adesso un’enorme pressione sul presidente per convincerlo a fare un passo indietro, ma resterà solo dialettica politica se Biden resiste, come sembra assolutamente determinato a fare. Il Partito democratico non ha armi formali per togliere l’investitura al proprio candidato ufficiale, che nelle primarie appena concluse ha collezionato 3.894 dei 3.934 delegati che prenderanno parte alla convention di Chicago (ai quali si aggiungono 700 “superdelegati”, i boss del partito che votano solo nel caso non ci sia una maggioranza al primo scrutinio). I delegati, piccoli esponenti locali del partito che di solito vanno alla convention in vacanza-premio, sono vincolati a votare Biden e solo lui può scioglierli dal vincolo. Una volta liberati, però, i delegati diventerebbero una marea umana di voti che possono andare a chiunque, senza alcun potere né da parte di Biden, né del partito di indicare chi votare.
Si aprirebbe quindi uno scenario da “open convention” quale l’America non ha più visto dalla drammatica assemblea dei democratici nel 1968 sempre a Chicago, con le correnti a combattere per cercare una maggioranza che quest’anno è fissata nel primo voto a 1.968 delegati. Se nei prossimi quaranta giorni il presidente decidesse di arrendersi, il Partito democratico andrebbe incontro a un’enorme battaglia politica per conquistare quei duemila voti. Biden potrebbe indicare la vice Kamala Harris, ma larga parte del partito non la ama. Newsom potrebbe rivendicare il peso della sua California nella convention e mettere sul piatto della bilancia i 496 delegati dello stato, che rappresenteranno il 22 per cento dei voti a Chicago.
Da sinistra, l’ala radicale di Alexandria Ocasio-Cortez potrebbe tentare un assalto, anche se minoritaria e con un leader, Bernie Sanders, che a 82 anni non è certo la migliore alternativa a Biden. Al centro, potrebbero emergere correnti filo-governatori che appoggiano il pacato e moderato Shapiro (che però da ebreo e filoisraeliano in questo momento troverebbe molte resistenze) o l’irascibile miliardario Pritzker, uno che sul palco con Trump sarebbe prontissimo alla rissa. La Whitmer, da parte sua, come vicepresidente del partito ha la possibilità di creare una forte coalizione di stati del Midwest e ha un’immagine consolidata a livello nazionale. E ovviamente resta aperta la possibilità che le varie correnti si blocchino a vicenda e sia necessario chiamare qualcuno che è fuori dalla politica: il nome che circola di più, in questo caso, resta quello di Michelle Obama.
Il vero tema però è chi e come deve guidare questo processo. Restano quaranta giorni, Biden non dà segni di ritirarsi, sua moglie Jill e sua sorella Valerie (le persone di cui si fida di più) sembrano orientate a tenere duro, nessun esponente di primo piano ha ancora tirato fuori la testa per chiedergli un passo indietro. E Chicago si avvicina.