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L'ultima mediazione

Il Donbas dieci anni fa: gli ultimi disperati tentativi di fermare la guerra

Andrea Cellino

I tentativi di dialogo, le divisioni fra i separatisti, l’ultimatum e l’evacuazione. L’allora capomissione dell’Osce a Luhansk racconta i giorni concitati che dieci anni fa portarono al conflitto

Una mattina di aprile del 2014 presi un volo da Kyiv a Donetsk, poi un treno locale per Luhansk per raggiungere il gruppo di osservatori dell’OSCE che ero stato incaricato di guidare. Le prime settimane del mio incarico come capo regionale OSCE, designato dal ministero degli Esteri italiano, furono drammatiche. Coincisero con la nascita dei movimenti separatisti appoggiati dalla Russia nelle due regioni (oblast) più orientali dell’Ucraina, Luhansk e Donetsk, e con l’inizio della campagna militare che Kyiv sferrò contro di essi. La missione speciale OSCE era stata approvata il 21 marzo 2014 dai 57 paesi membri in risposta alla richiesta del governo ucraino. Incaricata di monitorare e riferire sulla situazione politica e la sicurezza in tutto il paese a seguito dell’Euromaidan e dell’annessione della Crimea da parte della Russia, la missione si sarebbe presto trovata ad operare in una zona di guerra.
 

Per via del rapido dispiegamento della missione, carenze materiali limitavano il lavoro del mio gruppo di dieci osservatori (presto raddoppiati) che avevano incominciato ad arrivare a Luhansk all’inizio di aprile. Operavamo senza un ufficio, utilizzando i nostri appartamenti in affitto per riunirci, condividendo un numero limitato di computer portatili e anche di auto, per lo più prestate da altre missioni OSCE. Due interpreti reclutati localmente fornivano anche assistenza amministrativa. Nessun responsabile della sicurezza fu distaccato dalla missione a Luhansk prima di fine giugno 2014.
 

Il 6 aprile, il gruppo, guidato da Gaël Guichard, mia vice ed esperta di Russia e Ucraina, fu testimone dell’occupazione del palazzo sede dei servizi d’informazione ucraini (SBU) da parte di una folla di circa 5000 persone. Questo nonostante il dispiegamento di almeno 400 agenti di polizia, alcuni in assetto antisommossa, a guardia dell’ingresso dell’edificio, all’interno del quale presumibilmente vi era un deposito con oltre un migliaio di armi. Nei giorni successivi, gli occupanti eressero tre livelli di barriere con vecchi copertoni e filo spinato. Uomini armati vennero posti a guardia dell’edificio, incaricati di fermare i passanti e controllare documenti.
 

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In quelle prime settimane, diversi gruppi di militanti erano attivi a Luhansk, sia anti-Maidan o “federalisti” opposti al governo di Kyiv, sia pro-Maidan o partigiani "dell'unione" ucraina. Questi ultimi includevano attivisti filoccidentali moderati, ma anche gruppi di estrema destra affiliati al movimento Pravy Sektor, che sarebbe presto diventato un partito politico. L’amministrazione regionale era fedele a Kyiv, nonostante il Partito delle Regioni del deposto presidente Viktor Yanukovich detenesse la maggioranza di seggi in consiglio regionale.
 

Il 12 aprile, un gruppo paramilitare comandato da Igor Girkin detto "Strelkov" (fuciliere), colonnello in congedo dell’FSB russo, attaccò Sloviansk, città nella regione di Donetsk, occupando palazzi amministrativi e l’ufficio locale dell’SBU. Il giorno dopo, il presidente ucraino ad interim Oleksander Turchynov annunciò l’inizio "dell'operazione anti-terroristi" contro i separatisti pro-russi. Questi eventi sono generalmente considerati come l’inizio del conflitto nel Donbas.
 

Igor Girkin, colonnello in congedo dell’FSB russo che contribuì all'annessione russa dell'Ucraina nel 2014 - foto via Getty Images

Dialogo

Il 17 aprile, giorno in cui arrivai a Luhansk, il mio gruppo OSCE aveva incontrato due rappresentanti degli occupanti della sede SBU. Secondo le loro dichiarazioni, l’occupazione non era finalizzata a promuovere il "separatismo", ma a "proteggere i diritti dei cittadini di Luhansk". Critici sia nei confronti del governo di Kyiv che dell’amministrazione regionale, che ritenevano "illegittima", gli occupanti non espressero chiaramente i propri obiettivi strategici. Dichiarazioni contemporanee di attivisti pro-Maidan, sia moderati che di estrema destra, esprimevano sentimenti simili di insoddisfazione nei confronti di Kyiv. Questo ci portava a pensare che l’OSCE potesse organizzare un dialogo a livello locale tra i diversi gruppi di attivisti ed esponenti politici per cercare di evitare un’escalation conflittuale. Tale idea fu rafforzata da un documento firmato il giorno prima dai rappresentanti diplomatici di vari paesi, inclusa la Russia, la "dichiarazione di Ginevra", che chiedeva ai diversi attori nazionali di astenersi da "violenza, intimidazione, o azioni provocatorie", di "disarmare tutti i gruppi armati illegali", e di "stabilire immediatamente un ampio dialogo nazionale".
 

Nei giorni seguenti, il mio gruppo lavorò alacremente per convincere i gruppi politici e gli attivisti locali, e nello stesso tempo i leaders dell’OSCE a Kyiv e Vienna, che l’organizzazione di tavoli di dialogo inclusivi fosse la formula giusta per discutere le rimostranze locali e cercare di attenuare le tensioni. Gaël, prima del mio arrivo, aveva stabilito tutti i contatti necessari con gli esponenti locali e ottenuto la loro disponibilità di massima al dialogo. La situazione politica e sociale di Luhansk, che in quel momento era leggermente più calma che a Donetsk, pareva offrire un qualche margine di manovra.
 

Le proteste pro Russia nel 2014 in Ucraina - foto Ansa


Il 21 aprile, giorno successivo all’attacco ai separatisti di Sloviansk da parte di militanti di Pravy Sektor agli ordini di Kyiv, gli occupanti della sede SBU di Luhansk annunciarono la nomina di Valery Bolotov, un veterano dell’esercito sovietico ed ex-manager minerario, a "governatore del popolo". Diedero anche un ultimatum al governo di Kyiv, chiedendo di amnistiare tutti i loro militanti, ristabilire la lingua russa come ufficiale, e annunciare un referendum sullo status dell’oblast di Luhansk, entro il 29 aprile alle 14:00. Tuttavia, un contemporaneo annuncio tramite volantini distribuiti in città confermò la tenuta di un referendum l’11 maggio, che avrebbe chiesto ai cittadini di Luhansk se sostenessero "l'autodeterminazione della Repubblica popolare di Luhansk".
 

La settimana successiva, sia rappresentanti dei partiti e movimenti pro-governativi, sia il capo della polizia di Luhansk insistettero in vari incontri che vi fosse ancora margine per dialogo e negoziato tra gli occupanti e il governo di Kyiv. Insistemmo per avere risposte dai nostri colleghi nella capitale, ma chiaramente non arrivarono messaggi precisi dal governo. Il 24 aprile, voci di movimenti di truppe russe oltre il confine orientale misero in allerta l’OSCE per 24 ore. Le tensioni vennero anche alimentate dalla notizia che militanti pro-governativi erano stati imprigionati a Shchastya, una piccola città di campagna dove vi era un centro di addestramento della polizia, e consegnati agli occupanti a Luhansk. Per contro, la calma aumentò in città, e gli attivisti dei diversi movimenti ridussero la frequenza delle loro manifestazioni pubbliche.
 

Sabato 26 aprile, prendemmo un caffè con il capo dell’ufficio locale dell’SBU, originario di Lviv e nominato poco prima dell’occupazione. Ci rivelò di intrattenere contatti regolari con gli occupanti e confermò la nostra percezione che tra di essi coesistessero posizioni diverse: non tutti potevano essere definiti "separatisti" o anche "pro-russi". Tuttavia, a suo giudizio i ribelli ricevevano finanziamenti de "oligarchi ucraini" oltre che "dall’estero". Si disse anche convinto che la crisi si sarebbe potuta risolvere in modo pacifico, a condizione che venissero soddisfatte certe condizioni. Ma aggiunse che "certi politici" a Kyiv stavano traendo vantaggio da questa situazione per guadagnare consensi in vista delle imminenti elezioni presidenziali, programmate il 25 maggio.
 

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L’ultimatum

La notte prima della scadenza "dell'ultimatum" del 29 aprile, Gaël ed io, insieme a due altri colleghi, fummo autorizzati dagli occupanti ad accedere all’edificio SBU per un incontro con i loro leaders. Nel buio completo, passammo attraverso le barricate accompagnati da un giovane militante. Gli uomini armati in mimetiche che presidiavano l’ingresso del palazzo in stile sovietico ci fecero entrare dalle porte vetrate. Ma invece di salire le scale che portavano agli uffici, ci fecero scendere al piano inferiore, poi percorrere un corridoio male illuminato, e infine emergere di nuovo all’esterno e penetrare in una costruzione più piccola. In un’ampia stanza al primo piano quattro uomini sedevano attorno a un tavolo. In fondo alla stanza, dietro a una scrivania e un computer, sedeva Valery Bolotov. Una grande mappa dell’oblast di Luhansk occupava l’intera parete dietro di lui.
 

Gli uomini si presentarono come i capi "dell'Esercito del Sud-Est". In risposta alle nostre domande, Bolotov disse che lo scopo dell’occupazione era di "proteggere i diritti" dei cittadini di Luhansk, destituire il governo locale attuale, che consideravano "illegittimo", e ottenere "il diritto all’auto-determinazione". Riguardo "all'ultimatum", uno dei suoi uomini concesse che avrebbero potuto "lasciarlo cadere", a patto che Kyiv nominasse un nuovo governatore, e sostituisse capo della polizia e procuratore regionali. Nessuna di queste condizioni era stata inclusa nella comunicazione inviata alla Verhovna Rada (il parlamento ucraino). Gli uomini aggiunsero che giudicavano favorevolmente il ruolo dell’OSCE nella promozione del dialogo, ma avvertirono che ormai il tempo stava per scadere. Ma i leader dell’occupazione insistettero che, fino a quel momento, "si erano adoperati per usare la loro influenza sulla popolazione della regione per prevenire la violenza". Ma dopo la scadenza "dell'ultimatum", avrebbero "interrotto i loro sforzi di prevenzione". Un'asserzione che suonò come una minaccia.
 

Verso la fine dell’incontro, chiedemmo chiarimenti ai capi dell'"Esercito del Sud-Est" sulle asserzioni che attivisti pro-Ucraina fossero detenuti all’interno dell’edificio dell’SBU. Pochi minuti dopo, Timur Yuldashev, un attivista filogovernativo e allievo poliziotto, fu introdotto nella stanza. Il volto del giovane portava lividi e tumefazioni: era stato picchiato a Shchastya, ci spiegò, quando era stato imprigionato da alcuni abitanti. Aggiunse di essere trattenuto come "scudo umano" in caso il governo volesse attaccare il palazzo occupato. Bolotov e i suoi non commentarono, ma dissero che Yuldashev sarebbe stato presto liberato. (Yuldashev, che insieme ad altri allievi poliziotti, faceva parte di un piano del ministero degli Interni per creare una milizia anti-separatista nel Donbas, fu liberato dopo 35 giorni).
 

Il giorno dopo, un’ora dopo la scadenza dell'"ultimatum", centinaia di militanti separatisti occuparono il palazzo del governo regionale e l’ufficio del procuratore. Poco dopo, potemmo osservare agenti di polizia ucraini lasciare l’edificio ancora armati e in tenuta antisommossa. Alcuni miei colleghi riuscirono a entrare in entrambi gli edifici e poterono osservare vari uffici devastati e molte finestre rotte. Impiegati affermarono che materiale e computers erano stati rubati. Poche ore dopo, un rappresentante della "Libera repubblica di Luhansk" dichiarò a una TV locale che "tutto è sotto controllo", e che si preparava la tenuta del "referendum" l’11 maggio.
 

 I separatisti entrano nell'edificio del governo regionale del Donbas - foto Ansa

Divisioni

I giorni seguenti furono estremamente confusi, il mio gruppo ebbe difficoltà a seguire gli sviluppi e a distinguere tra fatti e voci che rapidamente si susseguivano. Per via della disinformazione alimentata dalla Russia, pochi media erano attendibili. La città rimaneva esteriormente tranquilla, ma gli eventi si susseguirono con drammatica rapidità: forze antigovernative fecero vari tentativi infruttuosi di occupare la sede regionale della polizia; un noto avvocato pro-Kyiv fu ferito a colpi di pistola; il primo maggio, una folla di 500-700 persone si assembrò di fronte al palazzo regionale occupato per celebrare la Festa del Lavoro scandendo "Russia, Russia" e sventolando bandiere rosse con falce e martello. I manifestanti pro-Ucraina con le loro bandiere ucraine azzurre e gialle, o con quelle dell’Unione europea, parevano spariti dagli spazi pubblici. Quando Bolotov, il 3 maggio, proclamò di aver imposto lo "stato di emergenza" in tutta la regione, chiese ufficialmente a tutte le forze di sicurezza ucraine di lasciare Luhansk e dichiarò proibiti tutti i partiti e le organizzazioni della società civile.
 

Per quanto ci fosse difficile monitorare regolarmente la situazione nelle campagne, gli sviluppi in diversi piccoli centri alimentarono il senso di caos e confusione di tutta la regione, il cui controllo da parte "dell'Esercito del Sud-Est" di Bolotov pareva tutt’altro che assoluto. Apprendemmo di vari tentativi di occupazione di edifici delle autorità locali in piccoli centri come Pervomaisk, Sverdlovsk e Rubizhne, che furono evitati grazie a negoziati tra le autorità e gli insorti. Significativamente, altri gruppi armati erano emersi nel sud della regione, tra i più importanti vi era la “Guardia nazionale cosacca” guidata dall’ataman (comandante) Nikolai Kozitsyn, che aveva raggruppato sedicenti discendenti della tradizione dei Cosacchi del Don e occupato l’edificio municipale di Antrasyt. A Sverdlovsk, dominava una milizia comandata da un altro sedicente cosacco, Alexey Mozgovoy, vagamente collegato con il gruppo di Kozitsyn. Entrambi si dichiaravano in opposizione al governo ucraino, ma indipendenti "dall'Esercito del Su-Est".

"Sud-Est" di Bolotov 

Nei giorni che precedettero il "referendum" apprendemmo dalla governatrice ad interim Iryna Verihina e dalla polizia che Kyiv continuava a dialogare con i separatisti, nella speranza di riuscire a evitare un voto illegale e fortemente divisivo. Il mio gruppo fece ulteriori tentativi di organizzare una riunione tra i leader politici locali e i gruppi armati, nonostante lo scarso supporto da parte del governo e un certo scetticismo della leadership dell’OSCE. Ma le circostanze ci ostacolarono ancora. Nonostante il governo ucraino avesse avvertito nuovamente che non l’avrebbe riconosciuto, il voto venne tenuto.
 

Il mio gruppo osservò a distanza il voto in città e in qualche località vicina, ma senza accedere ai seggi elettorali, poiché il capo missione OSCE ordinò di evitare ogni coinvolgimento che avrebbe potuto legittimare il voto. Non osservammo code o urgenza da parte dei cittadini di esprimere il loro voto su un quesito che era espresso in modo molto ambiguo: "Sei in favore dell’azione di autonomia della Repubblica popolare di Luhansk?" Comunque, il braccio destro di Bolotov, Alexey Karyakin, ci confermò che il "referendum" avrebbe determinato "il separatismo".
 

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Il giorno dopo, Bolotov annunciò che l’affluenza alle urne era stata del 75 per cento degli elettori della regione (oltre 1 milione e 375 mila), dei quali il 96 per cento aveva votato in favore della "proclamazione della Repubblica popolare di Luhansk" (LNR), e solo il 3,8 per cento contro. La nostra interpretazione all’epoca fu che, per quanto chiaramente coloro che votarono condividessero genericamente sentimenti antigovernativi, non erano necessariamente in favore di un'annessione da parte della Russia. Un sondaggio di opinione di quel periodo, ancora condotto in modo attendibile, indicava infatti che, per quanto dominasse nella regione un’opposizione al governo, e vi fossero perfino forti pulsioni separatiste, la maggioranza della popolazione non era favorevole a diventare parte della Federazione russa. L'ambiguità della domanda del "referendum" mirava appunto a sfruttare queste tendenze.
 

Ma i vincitori del "referendum" non dettero l’impressione di avere pianificato le mosse successive, ancorché di avere il controllo dell’intera regione. Due giorni appena dopo il voto, Bolotov fu attaccato e ferito a colpi d’arma da fuoco mentre si trovava in un’auto per recarsi a una “riunione sul futuro di Luhansk” come scriveva un comunicato della LNR. A seguito di questo "tentativo di assassinio", come riportavano i separatisti, i loro leader venne ricoverato in una clinica privata. Dove si trovasse tale “clinica” divenne chiaro due giorni dopo, quando la polizia di frontiera ucraina annunciò di avere catturato Bolotov mentre rientrava nel paese dalla Russia. Nonostante uomini "dell'Esercito del Sud-Est" riuscissero poi a liberare Bolotov, l'episodio dimostrò come le forze separatiste fossero divise, oltre a non avere il controllo del territorio. Il capo regionale della polizia ucraina ce lo confermò in un incontro il 15 maggio, ammettendo di poter esercitare il suo mandato solo nei distretti settentrionali dell’oblast di Luhansk, mentre vari gruppi armati lottavano per il controllo del resto della regione.
 

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"Novorossiya"

Oltre alle rivalità tra vari gruppi separatisti, i capi della neo-proclamata "Repubblica popolare di Luhansk" incominciarono a sentire la pressione dell’offensiva delle forze armate ucraine. Le notizie di combattimenti nella regione limitrofa di Donetsk, più precisamente nei pressi di Sloviansk, spinsero Bolotov e Karyakin, ora nominato "presidente del parlamento", a chiamare pubblicamente volontari per il loro "esercito" e fare appello alla Russia perché inviasse "forze di peacekeeping". Il 22 maggio, l’“esercito” occupò la sede della polizia e un nuovo "ministro degli interni" fu incaricato della sicurezza.
 

Col senno di poi, è chiaro che il viaggio di Bolotov in Russia fu un punto di svolta. Tuttavia, i nostri rapporti dell’epoca non paiono indicare che la presenza russa fosse notevole in quel momento, e neppure che gli agenti di Mosca fossero direttamente attivi, come fu il caso poco più tardi. Questo potrebbe essere spiegato dalla grande incertezza che regnava, con diverse forze che si contendevano il controllo della regione di Luhansk. Oppure si potrebbe supporre che il Cremlino non avesse ancora deciso su che cavallo scommettere.
 

Una qualche prova dell’interferenza russa poteva dedursi dai rapporti del mio gruppo sugli incontri con i gruppi armati nel sud della regione. Il 21 maggio, sia le milizie di Mozgovoy a Sverdlovsk che i cosacchi di Kozitsyn ad Antrasyt (vicino al confine russo) avevano rivelato equipaggiamenti russi e portato alla luce contatti con la Federazione. Per esempio, a Sverdlovsk trovammo materiale di propaganda del partito Liberal-democratico del populista Vladimir Zhirinovsky, mentre Kozitsyn vantava contatti con gruppi cosacchi russi. Quest'ultimo aveva a disposizione alcuni veicoli militari di qualità sospettosamente avanzata per un gruppo armato locale. Tuttavia, entrambi i gruppi pur dichiarandosi "separatisti" sostenevano di essere in favore di una regione autonoma di Luhansk che "mantenesse buone relazioni" sia con l'Ucraina che con la Russia. Per quanto, se tale opzione venisse a mancare, avrebbero preferito essere "collegati alla Russia".
 

 Alcuni separatisti portano una bandiera della Novorossiya - foto via Getty Images


Il 22 maggio, Virigina, la governatrice ad interim, che aveva lasciato la città di Luhansk per stabilirsi nel piccolo centro settentrionale di Svatove, ci informò che il ministro della difesa ucraino era "in visita" nella regione. Lo stesso giorno, il comandante del 24° battaglione dell’esercito ucraino fece discretamente sapere alla missione OSCE che le sue truppe stavano per riprendere le cittadine di Rubizhne a nord di Luhansk, con lo scopo di permettere l’organizzazione delle elezioni presidenziali ucraine previste il 25 maggio.
 

La campagna elettorale, in atto da settimane nel paese, pareva solo un’eco lontana a Luhansk. Dopo l’imposizione della legge marziale, Bolotov fece nuovamente appello alla Russia perché inviasse "forze di peacekeeping". Nei giorni seguenti, molti esercizi commerciali, banche, bar e ristoranti, restarono chiusi in città. Alcuni collegamenti ferroviari per e da Kyiv e Kharkiv furono sospesi.
 

Il 24 maggio, il sito di RT (Russia Today, controllato dal governo russo) annunciò che le "repubbliche popolari" di Donetsk e Luhansk si erano accordate per creare "l'Unione della Nuova Russia" (Novorossiya) a seguito dei recenti "referendum per l’indipendenza dall’Ucraina". Veniva anche riportato che delegati di otto regioni ucraine avevano firmato "un manifesto che si impegnava per l’autodeterminazione e la protezione della popolazione dal 'terrore delle bande naziste'". Interpellati, sia Bolotov che Karyakin negarono che un tale accordo fosse stato concluso, ma ammisero che negoziati erano in corso tra le due "repubbliche". Il giorno dopo, domenica, la maggior parte dei cittadini di Luhansk e Donetsk non poté votare nelle elezioni presidenziali. Nonostante gli sforzi delle truppe ucraine per liberare i territori a nord delle due città, fu impossibile allestire i seggi.
 

L'offensiva dell’esercito ucraino riprese il 27, concentrandosi su Rubizhne e l’area a nord della città industriale di Sieverodonetsk, dove verosimilmente erano stati identificati punti deboli delle forze separatiste. Prevedibilmente, Bolotov dichiarò che la LNR si trovava ora in “stato di guerra”, e che effettivi dell’“esercito” erano stati inviati a nord, oltre che a Sloviansk e Donetsk per aiutare la "Repubblica popolare" alleata. Ma le notizie di un’avanzata dei militari ucraini contribuirono ad accentuare le divisioni nel campo separatista. Molti gruppi armati al di fuori della città di Luhansk non solo agivano ormai autonomamente dalla leadership della "repubblica", ma incominciarono a metterla in questione o ad opporsi ad essa, considerandola "troppo morbida" nei confronti di Kyiv. In risposta, i capi della LNR accentuarono in città la repressione delle voci di dissenso, inclusi molti giornalisti.
 

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Evacuazione

Il 29 maggio, fui svegliato prime dell’alba dal rumore lontano di armi da fuoco e di esplosioni. I combattimenti avevano raggiunto Luhansk: armati "dell'Esercito del Sud-Est" si stavano scontrando con unità della Guardia nazionale ucraina a circa tre chilometri dal centro. Da alcune ore, i separatisti stavano tentando di prendere un edificio tenuto dalla Guardia nazionale. Non essendo in condizioni di osservare direttamente gli eventi per timore di essere coinvolti in scontri armati, dovemmo basarci su fonti mediatiche.
 

Ma la sera dello stesso giorno la nostra attenzione dovette rivolgersi altrove: un piccolo gruppo di nostri colleghi che si era recato quella mattina ad osservare la situazione a Lysychansk e Severodonetsk, non era rientrato. I quattro osservatori e l’interprete che viaggiavano su due auto non rispondevano alle chiamate. Apprendemmo nella notte che erano stati trattenuti da un gruppo armato a Sieverodonetsk. Probabilmente tenuti come scudi umani da un gruppo affiliato ai cosacchi di Kozitsyn, al fine di scoraggiare un attacco ucraino in quell'area, il cosiddetto triangolo Rubizhne-Sieverodonetsk-Lysychansk. Industrie chimiche e centri di ricerca si trovavano in quella zona, dov'erano verosimilmente stoccati anche materiali chimici pericolosi. I nostri appelli ai capi della "repubblica" a Luhansk non sortirono alcun effetto, dimostrando ulteriormente come le profonde divisioni e rivalità tra i gruppi separatisti stessero condizionando la sicurezza nella regione.
 

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Nei giorni successivi, infatti, la situazione si deteriorò e combattimenti esplosero in varie zone della città e dintorni. Il 2 giugno, l’aviazione ucraina colpì con un missile l’edificio occupato dell’amministrazione regionale in centro città, facendo 8 vittime e vari feriti tra separatisti e civili. La notte precedente, forze separatiste avevano attaccato vari centri della Guardia nazionale nella regione, principalmente per prendere armi. Anche le guardie di frontiera ucraine a Stanytsia-Luhanska denunciarono vari attacchi, provenienti sia dai separatisti che da non meglio identificate "forze" da oltre la frontiera con la Russia. Molti civili iniziarono a lasciare la regione, per lo più utilizzando i treni che ancora funzionavano.
 

D'accordo con la dirigenza OSCE, nei primi giorni di giugno il mio gruppo fu evacuato da Luhansk. Quindici osservatori furono trasferiti a Kharkiv, alcuni viaggiando in circostanze avveturose, in treno o in auto. A destinazione, la missione fornì loro assistenza psicologica, mentre si iniziò a riorganizzare il lavoro di monitoraggio, che si sarebbe inizialmente limitato all’area nord dell’oblast di Luhansk.
 

Insieme ad altri due colleghi e un'interprete, io restai nella città di Luhansk, operando con discrezione da un piccolo hotel di periferia. Lo scopo era di mantenere contatti con le forze separatiste, contribuire agli sforzi per liberare i nostri colleghi e riferire limitatamente riguardo alla situazione.
 

A Kyiv, il 7 giugno, Petro Poroshenko entrò ufficialmente in carica come presidente ucraino democraticamente eletto. I quattro osservatori OSCE del mio gruppo furono liberati dai loro sequestratori dopo un mese di detenzione, il 28 giugno, psicologicamente provati ma in buona salute.
 



Riflettendo a distanza di dieci anni su quel primo periodo della missione OSCE a Luhansk, e leggendo i rapporti dell’epoca, non si può fare a meno di provare la sensazione di un'opportunità mancata. Nella primavera del 2014, forti movimenti separatisti erano attivi in molte città ucraine, Odesa, Kharkiv, Zaporizhia, Dnipropetrovsk. Tutti erano sostenuti segretamente dalla Russia. Nessuno di questi riuscì a creare delle "istituzioni" separatiste e quelle città restarono saldamente dalla parte di Kyiv. Sarebbe stato possibile che lo stesso accadesse a Luhansk?
 

Il margine per i negoziati era indubbiamente ristretto, ma molte delle forze politiche attive nella regione ci dettero forti segnali di una volontà di discutere con il governo soluzioni diverse da una "repubblica" separatista. Erano tutti in buona fede? Difficile rispondere con assoluta certezza. Alcuni esperti hanno sostenuto che forse un governo eletto e con pieni poteri a Kyiv avrebbe potuto negoziare per cercare di evitare gli sviluppi separatisti a Luhansk. D'altro canto, la forza e la violenza del movimento ribelle a Donetsk influenzò la posizione di Kyiv, convincendo il governo ad assumere una posizione intransigente anche con Luhansk. Come lo storico Serhii Plokhy ha scritto, la presa di controllo russa del Donbas avvenne durante un "interregno", tra l’estromissione di Yanokuvich in febbraio e l’elezione di Poroshenko come nuovo presidente. E storicamente "gli interregni sono i periodi più pericolosi nella vita degli stati, provocando azioni predatorie da parte di stati vicini che sfrutterebbero l'opportunità presentata dalla mancanza di regole universalmente accettate per impadronirsi di territori del rivale".
 

Inoltre, la confusione che regnava sul terreno in quelle prime settimane, con diversi gruppi armati che si combattevano per controllare la regione di Luhansk, certo non facilitò una comprensione della situazione. Questo rese impossibile la formulazione di una strategia efficace da parte dell’OSCE e del resto della comunità internazionale. Quanto era avvenuto in Crimea poche settimane prima (e a Donetsk nello stesso tempo) forse incoraggiò la convinzione generale che non esisteva spazio per negoziare con i separatisti a Luhansk.
 

Dopo il "referendum", l'offensiva militare ucraina si intensificò, e gradualmente la Russia impose la sua strategia e creò istituzioni fantoccio, con individui diversi, infiltrando i suoi agenti e manipolando con la sua propaganda i sentimenti antigovernativi di gran parte della popolazione. Ma continuo a credere che le cose non fossero destinate ad andare così fin dall'inizio.

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