medio oriente

L'esercito israeliano conta i giorni per uscire da Gaza

Micol Flammini

Israele pensa a un piano per il dopo-guerra nella Striscia e parlare di Autorità nazionale palestinese non è più un tabù, anche Netanyahu ne discute a porte chiuse. L'urgenza del nord

Non è intenzione di Israele rimanere a Gaza, non vuole e non può. Deve trovare i tempi e i modi per rendere la Striscia un posto da ricostruire fisicamente e politicamente, mentre i tentativi per un accordo sul rilascio degli ostaggi e il cessate il fuoco con Hamas vanno avanti e lo stato ebraico sta visionando una nuova risposta del gruppo consegnata ieri da Qatar ed Egitto. Israele è immerso nelle proteste – protestano le famiglie degli oltre centoventi ostaggi che sono ancora in prigionia a Gaza, protestano gli haredim che rifiutano la leva militare, protestano i cittadini dell’alta Galilea che non vedono come potranno tornare nelle loro case – e il governo è paralizzato dalle non decisioni. Tsahal, l’esercito israeliano, è ancora impegnato nella Striscia, l’operazione a Rafah va avanti e i soldati sono tornati a Khan Younis, per eliminare alcuni depositi di armi di Hamas rimasti intatti.  Il problema con il gruppo della Striscia è che continua a reclutare nonostante sia spuntato, i lanci di razzi non costituiscono più un problema urgente per la sicurezza di Israele, ma lo stato ebraico deve trovare un piano per il dopoguerra: deve fare quello che gli Stati Uniti chiedono da fine ottobre, da quando i soldati israeliani sono entrati nella Striscia. 


Il segretario di stato americano, Antony Blinken, ha trascorso mesi a viaggiare per il medio oriente in cerca di una soluzione, ma non esistono ottime opzioni per il dopo guerra, ce ne sono di migliori o di peggiori, nessuna è ideale per la sicurezza di Israele e per il futuro della Striscia. Tra i viaggi di Blinken una tappa è stata dedicata spesso a Ramallah, per incontri con il leader dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), Abu Mazen, nel tentativo di coinvolgerlo in un apparato di sicurezza duraturo. Abu Mazen ha ottantotto anni, è indebolito sia come guida del suo partito Fatah sia come capo dell’Anp, per Israele dargli le chiavi di Gaza equivale a favorire il ritorno di Hamas. “Non cambierò Hamastan con Fatahstan”, ha detto Benjamin Netanyahu per rispondere alle offerte americane, ma esiste un Netanyahu pubblico e uno privato, ne esiste uno a porte aperte e uno a porte chiuse. 


Il Times of Israel ha raccolto varie fonti interne al governo israeliano, ha parlato con collaboratori del primo ministro, e ha pubblicato un articolo per raccontare quanto ormai tra le pessime opzioni per il futuro di Gaza, Netanyahu stia iniziando a considerare l’Autorità nazionale palestinese come la meno peggio. Nella sua intervista televisiva al Canale 14, un’emittente amica e molto vicina al Likud, il premier ha detto che non avrebbe mai dato Gaza all’Anp, ma i suoi collaboratori assicurano che a porte chiuse Netanyahu fa altri calcoli, ben più pragmatici. Israele vorrebbe evitare di affidare ad Abu Mazen il controllo della Striscia, starebbe però pensando di agevolare cittadini contrari a Hamas e con rapporti con Ramallah. Non è detto che questi palestinesi accettino, è già accaduto per il controllo del valico di Rafah che Tsahal voleva consegnare a palestinesi vicini all’Anp, ma Ramallah avrebbe rifiutato perché l’affiliazione di questi nuovi protettori del valico non sarebbe stata pubblica: Israele non voleva che si venisse a sapere della collaborazione con l’Autorità nazionale palestinese. 
Secondo il Financial Times, Tsahal inizierà presto un programma per creare delle zone umanitarie per i civili di Gaza non affiliati a Hamas, queste zone, dette “bolle” saranno prima istituite a nord, verrebbero rifornite direttamente dai valichi ma ci sarà bisogno anche di una piccola amministrazione e, stando ai rapporti del quotidiano britannico, Hamas temendo il piano post bellico di Israele ha cercato di eliminare molti dei leader politici rimasti. 


La priorità a Gaza ora sono gli ostaggi, la priorità di guerra invece è sempre più a nord, al confine con il Libano, dove gli attacchi sono costanti e pressanti. Ieri Israele ha eliminato un altro capo del gruppo libanese Hezbollah, Muhammad Nimah Nasser alla guida dell’unità Aziz, e Hezbollah ha risposto lanciando un attacco combinato con droni e razzi. Basta un nulla per rendere la guerra tra Israele e Hezbollah devastante, ora è sfiancante, ma pronta a peggiorare e Tsahal non vuole tenere aperto un fronte a Gaza mentre si concentra a nord e mentre anche internamente, con la decisione del governo di legalizzare alcuni avamposti in Cisgiordania e l’accoltellamento di ieri in un centro commerciale della città settentrionale di  Karmiel, deve tenere sotto controllo una situazione sempre più tesa. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)