Il nuovo Regno
La quarta via di Keir Starmer, più testa che cuore
Londra va controcorrente marciando verso la moderazione mentre fuori s’impone il trumpian-lepenismo, ma le manca la gioia del change. Ora ci vuole realismo, c'è da aggiustare un paese a pezzi, poi torneranno speranza e fiducia, che ci sono mancate, ci dice Alastair Campbell, uno che di rivoluzioni laburiste se ne intende
Su Kentish Town Road, gli attivisti, i volantini e persino uno dei rari furgoncini elettorali che si intravedono a Londra, sono per Andrew Feinstein. Questa strada attraversa la circoscrizione di Keir Starmer, il leader del Labour che si appresta a diventare il premier britannico, e Feinstein è un candidato indipendente che ha deciso di sfidarlo a casa sua ripetendo che laburisti e conservatori pari sono e denunciando la disumanità di Starmer sulla crisi di Gaza. “Starmer può dormire sonni tranquilli”, dice un elettore sfilandosi dalla calca che si è creata al seggio dove è andato a votare il leader del Labour accompagnato da sua moglie, l’imprendibile Victoria, vestita di rosso. La vittoria tranquilla di Starmer è stata il ritornello che ha scandito una campagna elettorale veloce e, secondo tutti i sondaggi, prevedibile, pure se il Labour ha cercato di tamponare questo senso di inevitabilità che rischia di diventare delusione.
E’ un momento storico, questo, per il Partito laburista e per il mondo fuori di qui, ma non si sente. Negli ultimi 45 anni il potere è passato dai Tory al Labour e viceversa soltanto tre volte – nel 1979, nel 1997, nel 2010 – tutte a loro modo rivoluzionarie, mentre ora il Regno Unito sembra scivolare dentro al cambiamento per inerzia, spinto da un rifiuto permaloso dei governi conservatori. E sì che quel che sta avvenendo è unico, non soltanto per il Labour che torna al potere ma anche guardandosi un po’ attorno: lo Spectator, storico magazine conservatore, fa una sintesi esatta nell’illustrazione di copertina, con un’enorme urna che piomba, schiacciandoli, sul premier conservatore Rishi Sunak, sul presidente francese Emmanuel Macron e sul presidente americano Joe Biden. Ma se a Washington e a Parigi scalpita la destra trumpian-lepenista fatta di nazionalismo e di sulfuree proposte illiberali, Londra va controcorrente, sceglie la stabilità, la moderazione, il buon senso, la possibilità di curarsi dopo aver fatto un lungo bagno nazionalista con la Brexit ed essendone uscita più povera e più arrabbiata.
Com’è che gli inglesi non si accorgono di essere di nuovo un’isola di luce, perché non c’è l’entusiasmo delle vittorie storiche, la gioia del cambiamento? C’è molta testa e poco cuore, e un lamentio continuo che molti dicono essere parte determinante del carattere nazionale. “Le elezioni sono spesso una battaglia tra speranza e paura”, dice Alastair Campbell, indaffarato nella preparazione della notte elettorale su Channel 4, “e certamente i Tory hanno cercato di disseminare ogni genere di paura riguardo all’avanzata del Labour, ma tutti i segnali dicono che hanno fallito anche in questo”. Campbell – spin doctor di Tony Blair e uno degli architetti della rivoluzione del New Labour del 1997, che è il metro di paragone per tutto – vede meglio di tanti altri la differenza tra una vittoria di testa e una di cuore: “Il Labour ha fatto del ‘cambiamento’ il suo messaggio, ma ha scelto una strategia cauta, centrata su quanto è stato terrificante il governo conservatore e anche su ‘things can only get better’ (che è la canzone-simbolo del blairismo). La ragione è che l’economia è stagnante, l’umore del paese è tetro, sembra che non funzioni più nulla. Il Labour è realistico, sa che ci vorrà del tempo per aggiustare il paese e nelle elezioni moderne raramente i politici ce l’hanno, tutto questo tempo”. Sarà dura, dice Campbell, ma una spolverata di gioia infine la concede, sente anche lui che, mettendo fuori il naso dagli affari britannici, serve: “Sono convinto che vedere il peggior governo della storia che esce di schiena farà spazio a una nuova speranza e a una nuova fiducia: ci sono mancate così tanto”.