Il risveglio del Regno

Il primo giorno di Keir Starmer, il moderato di ferro che va veloce e fa luce

Paola Peduzzi

Il talento di Morgan McSweeney, che ha scelto bene i collegi in cui fare più male ai conservatori e spazzarli via. Il primo discorso del nuovo premier britannico sulla stabilità e l'urgenza di aggiustare il paese, e l'ultimo discorso di Rishi Sunak, che è stato anche il suo più bello. Il governo fatto subito e senza sorprese, in linea con la filosofia "no drama". I mercati freddini, la camminata dentro al mattino e la voce più ricorrente: l'errore più grande è sottovalutare Starmer

Londra, dalla nostra inviata. “Possiamo ricominciare a guardare avanti e camminare dentro al mattino”, ha detto Keir Starmer all’alba del giorno in cui è diventato premier del Regno Unito, nella Turbine Hall della Tate. La vittoria alle elezioni era ormai certa, la grande maggioranza ai Comuni pure, Starmer ha parlato dei raggi del sole e della speranza e poiché questo è un momento storico, pieno di simboli e rimandi al passato, quel sole si è fissato negli occhi come il meraviglioso “Weather Project” di Olafur Eliasson, una delle installazioni più famose della Tate: allora il Labour era ancora al potere, prima della stagione conservatrice che è tramontata oggi, dopo la notte elettorale più punitiva di sempre. Starmer ha iniziato così la giornata del suo insediamento, scandita dai riti della transizione di potere, che nel Regno Unito è rapida e pure un po’ brutale.  Rishi Sunak è andato da re Carlo, si è dimesso, è tornato a Downing Street per il  discorso di saluto e poi lo stesso giro lo ha fatto Starmer, ma per incominciare. All’ora di pranzo era tutto fatto,  Sunak aveva pronunciato forse il discorso più serio e gentile del suo mandato, e il nuovo premier era arrivato a Downing Street, per annunciare il suo governo: il cambiamento è adesso.

 

L’arrivo a Downing Street è quello che poi entra nei  libri di storia e per Starmer resteranno: la piccola folla, con un po’ di bambini, ad accogliere il premier e sua moglie Victoria, sventolando le bandierine proprio come nel mitico 1997 della vittoria di Tony Blair; Victoria, che è stata e vuole essere riservatissima, elegante e sottile, vestita di rosso e radiosa; gli abbracci, tanti e praticamente a tutti, il primo momento starmeriano di calore e gioia, commovente e lento, come se il premier avesse il bisogno e il desiderio di godersi ogni attimo. Poi il primo discorso, le parole scelte: Starmer si mette al servizio di tutti gli inglesi, anche di chi non l’ha votato, sotterrando si spera più a fondo possibile la retorica polarizzante del rivale come nemico, perché il paese viene prima del partito e perché il paese è tutto da aggiustare, ci vogliono dedizione e senso dell’urgenza, così “l’infrastruttura delle opportunità” sarà restaurata, assieme alla voglia di lasciarsi alle spalle rabbia e delusione, per  camminare finalmente dentro al mattino e al futuro. Gentilezza e serietà hanno caratterizzato anche il discorso di Sunak – che ha chiesto scusa agli elettori e ai candidati dei Tory, ha sottolineato che si può rispettare anche chi non la pensa come te, come lui rispetta Starmer – e a parte il sollievo di riscoprire che la politica può essere educata, s’è sentito per la prima volta da parecchio tempo che sì, qualcosa è cambiato.

 

Questa scenografia così garbata non deve farci dimenticare due cose, dice un insider laburista, riportandoci con i piedi per terra: la strategia per arrivare fin qui è stata brutale, “da killer”, e il lavoro da fare ora, per Starmer, non è semplice e non è nemmeno chiaro: la vaghezza che finora ha tutelato il suo vantaggio non può durare. La strategia è stata concepita dal capo della campagna elettorale, il burbero Morgan McSweeney, soprannominato “data nerd” dal Financial Times, ma che è molto di più: è quello che lavora da anni per sradicare la componente radicale e più a sinistra del Labour, è quello che ha combattuto i blairiani quando si erano convinti che il Labour non potesse essere salvato da Jeremy Corbyn e si dovesse creare un altro partito magari assieme ai Libdem (c’era l’esempio macroniano nella Francia dirimpettaia da imitare, allora), ed è quello che ha curato la costruzione della leadership di Starmer, passo dopo passo, dalle riunioni semicarbonare del 2019 fino a oggi. McSweeney, quarantasettenne noto per il suo brutto carattere, ha anche scelto in quali circoscrizioni fosse più utile investire e presentarsi per determinare lo swing necessario alla vittoria.

 

Da settimane i commentatori si passano la mappa dei giri elettorali di Starmer e delle due queen del LabourAngela Rayner, nominata oggi vicepremier, e Rachel Reeves, nominata cancelliera dello Scacchiere – per capire se la cautela adottata nelle proposte si rispecchiasse anche nei calcoli delle circoscrizioni conquistabili. Ogni giorno dicevano: il Labour vuole vincere alla grande, tanto maneggia con cura “da vaso Ming” le parole, quanto è spietato nella scelta dei suoi obiettivi. Questo è il metodo di McSweeney, che fino all’ultimo ha detto che bisognava stare concentrati e mobili, che non ha organizzato feste e celebrazioni vistose e che ha determinato una dinamica su cui sondaggisti e analisti si arrovelleranno a lungo: con una quota di voti che è pari a quella di Blair nel 2005, Starmer è riuscito a vincere 412 seggi e una maggioranza rispetto ai 121 vinti dai Tory che è molto più simile al Blair del 1997, l’elezione della valanga d’oro. Nessun partito ha mai vinto una maggioranza tanto ampia con così pochi voti (9,6 milioni in termini assoluti, il 34 per cento) e questo vuol dire che si è combattuto nelle circoscrizioni giuste, scelte con una cura chirurgica e, appunto, assassina.

 

Tom McTague, che ha raccontato gli anni della Brexit sull’Atlantic con una precisione impareggiabile e ora è il capo della politica del sito UnHerd, ha trascorso mesi a studiare le macchine elettorali del Labour e dei Tory e spiega che gli starmeriani hanno “fatto una carneficina” di conservatori grazie a una scelta “di efficienza” che si è rivelata travolgente. In realtà questo approccio è stato adottato anche dai Tory e dai Libdem, ma per i primi non ha funzionato, anche perché si sono ritrovati schiacciati da due parti. Da destra, dal Reform Uk di Nigel Farage (che entra ai Comuni per la prima volta dopo averci provato per otto tornate elettorali e che ha conquistato più di 4 milioni di voti, che però per il Reform valgono soltanto 4 seggi parlamentari, e infatti Farage chiede una riforma elettorale), e da sinistra, da quei Libdem con cui si era persino fatto un governo di coalizione   e che invece le circoscrizioni su cui spendere le hanno scelte alla grande: ora hanno 72 seggi, che è l’ennesimo risultato storico di questo luglio elettorale. Bisogna essere bravi, insomma, oltre che killer, e McSweeney sta già pensando come affinare e replicare alla prossima elezione il suo metodo, perché “per fare il cambiamento veramente, ci vogliono almeno dieci anni”.

 

McSweeney è stato il secondo a stringere la mano di Starmer nel celebre e festoso ingresso a Downing Street: si è creato un sodalizio fortunato e destinato a durare ora che il cambiamento deve trasformarsi da un (facile) messaggio elettorale in un governo. Il neopremier ha formato subito l’esecutivo, per confermare quanto considera urgente mettersi subito al lavoro e perché la settimana prossima vuole presentarsi al vertice della Nato a Washington con tutto già deciso e in ordine. Nella sfilata dei futuri ministri all’ingresso di Downing Street, un altro cardine della liturgia delle transizioni e dei rimpasti, non ci sono state  sorprese – “no drama Starmer” è una delle espressioni più utilizzate per definire il premier: Laura Kuenssberg, roccia della Bbc, in diretta notte e giorno senza perdere la sua perfidia, ha notato che i convocati camminavano volutamente lenti, indugiando davanti alle telecamere, con i sorrisi gongolanti di chi sa stupirsi dell’impresa  e non ha intenzione di essere frettoloso.

 

Di fatto Starmer ha preso il suo governo da leader dell’opposizione e gli ha tolto l’ombra, confermando i dicasteri principali, come la prima cancelliera dello Scacchiere del Regno che nel suo breve discorso ha ripetuto crescita crescita crescita, e come David Lammy, ministro degli Esteri, che non è un volto nuovo – era  sottosegretario nell’ultimo governo Blair – ma  è considerato il più schietto di tutti i ministri, cosa che non è esattamente compatibile con il suo ruolo diplomatico e che gli ha già creato uno stuolo di detrattori, tra i quali spicca la scrittrice J. K.  Rowling, che ama invero poco questo Labour. Cinquantadue anni tra pochi giorni, Lammy ha genitori originari della Guyana, è stato abbandonato dal padre quando aveva 12 anni, ha quattro figli e tre carriere: da avvocato, da politico e da attivista per la giustizia razziale e sociale. Intransigente sui diritti, ha costruito un dialogo con il ministro degli Esteri conservatore di cui prende il posto, David Cameron, discutendo pubblicamente dell’eccessiva cautela nel chiedere un cessate il fuoco a Gaza (questo non gli ha impedito di essere comunque contestato nei comizi dagli attivisti pro palestinesi: la questione mediorientale un po’ ha pesato contro Starmer, che ha chiesto il cessate il fuoco assieme al rilascio degli ostaggi e alla difesa del diritto di Israele a esistere), ma anche condividendo la determinazione tutta britannica a sconfiggere Vladimir Putin in Ucraina e in qualsiasi posto che il presidente russo ambisca a fare suo. Lammy ha incontrato il presidente ucraino Volodymyr Zelensky in Normandia, durante le celebrazioni dell’ottantesimo anniversario del D-Day, e ha pubblicato una foto su X con la scritta: “Staremo accanto all’Ucraina fino alla vittoria”. 

 

Nel dibattito notturno alla London School of Economics, mentre uscivano i risultati elettorali, la  politica estera del governo Starmer è stata discussa, ma essendoci una sostanziale continuità con i Tory su molti temi, esclusa l’Europa naturalmente, le analisi si sono concentrate sulle questioni economiche, ché quando il neopremier dice che va aggiustato il Regno Unito intende la necessità di sanare l’impoverimento strutturale (e pure demografico). Nonostante Starmer e  Reeves parlino di crescita con una convinzione rara nelle sinistre continentali, i timori sulle misure concrete che prenderà il prossimo governo sul fronte economico sono i più persistenti. A Londra molti sibilano che tanti uomini d’affari stanno  facendo  le valigie: non si sa se sia vero o sia il ricasco della retorica conservatrice durante la campagna elettorale. Di certo i mercati stamattina sono stati freddini, mentre qui si guardava alla luce britannica come a un’invidiabile eccezione – “stabilità e moderazione” dette come una missione dal premier al suo primo discorso – camminando verso il mattino, con la voce di un informatissimo in testa: il più grande errore che si può fare con Starmer è sottovalutarlo.
 

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi