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Verso le presidenziali 2024

La great America dei grandi insulti

Siegmund Ginzberg

Joe Biden e Donald Trump si danno del delinquente e del coglione: non c'è da stupirsi, niente di nuovo per la corsa alla Casa Bianca. In Sudamerica è anche peggio

La cosa sorprendente in queste elezioni francesi è che non siano volate parole grosse tra i principali protagonisti. La solita orgia di pov’con, coglione e faux-cul (che vuol dire ipocrita, non faccia di c…), Il consueto emmerdement tra i peones. Ma non tra Marine Le Pen, l’ancora più compito Jordan Bardella ed Emmanuel Macron. Tutt’al più, hanno dato dell’antisemita a Jean-Luc Mélanchon. Ma l’ultrà populista della sinistra se l’era un po’ cercata. A commentare i risultati del primo turno si è presentato davanti alle telecamere con accanto una bellissima giovane avvolta in una kefiah palestinese. Niente insulti nemmeno tra il conservatore Rishi Sunak e il laburista Keir Starmer nelle politiche stravinte da quest’ultimo.
  

“Broken Down Pile Of Crap” (letteralmente: un “cumulo di merda in disfacimento”) invece l’ultima di Donald Trump su Joe Biden. Si erano già dati reciprocamente del “delinquente” e dell’“assassino”, del “bugiardo”, del “disonesto” e del “farabutto” nel loro primo dibattito televisivo (messo in secondo piano dal nostro provincialismo, tutto preso dalle elezioni francesi). Si sono sprecati nelle reciproche accuse di essere losers e suckers, perdenti e coglioni. Ma non saprei dire quanto abbiano capito dello scambio gli oltre 50 milioni di americani incollati agli schermi della Cnn e degli altri 22 network che hanno trasmesso in diretta il match. Io, per raccapezzarmi, ho dovuto ricorrere all’explainer di una giornalista del New York Times, specializzata in fact-checking.
 

Javier Milei ha dato al presidente colombiano Gustavo Petro del “terrorista assassino” e del Papa ha detto che è “incarnazione del Maligno”

 
L’attacco era partito da Biden: “Sono andato (in Francia, ma questo Biden si è dimenticato di dirlo) al cimitero della Seconda guerra mondiale (e si è subito corretto: no, della Prima guerra mondiale), e lui (Trump) si era rifiutato di andarci. Stava col suo generale a quattro stelle, e quello poi mi ha riferito che lui (sempre Trump) gli aveva detto: ‘Non ci vado, perché quelli (non è chiaro se i morti o i vivi) sono una manica di perdenti e coglioni’. “Non è vero. Ho subito smentito. E comunque perdente e coglione sarai tu”, la replica di Trump. Lo scambio originava da un articolo di quattro anni fa del settimanale The Atlantic. Il generale dei marine a quattro stelle è John Kelly, che è stato capo di gabinetto alla Casa Bianca con Trump. Sarei pronto a scommettere che, senza questa spiegazione, il pubblico ha colto solo le parolacce. E l’impappinamento senile di Biden.
    

Un insulto politico ha senso solo se lo si capisce al volo. Altrimenti, ben che vada, lascia il tempo che trova. Nella politica americana nessuno avrebbe il diritto di lanciare la prima pietra. I presidenti hanno una lunga storia di intemperanze verbali. Soprattutto nei confronti dei giornalisti. Che in America non sono mai remissivi o in ginocchio. Non temono di perdere il posto perché hanno messo in difficoltà un potente, ma solo se non fanno il loro mestiere. Le domande imbarazzanti le urlano a gran voce (mi rimbomba ancora nelle orecchie la voce possente di Sam Donaldson, che riusciva a farsi sentire anche da lontano). Non si accontentano se l’interrogato non risponde. Insistono come bulldozer, ripetono la domanda, finché quello è costretto a rispondere.
 

Trump, da presidente, si era spazientito durante una delle sue prima conferenze stampa alla Casa Bianca. Jim Acosta, della Cnn, insisteva nel voler sapere perché Trump avesse parlato di “invasione imminente” di migranti in arrivo dal Messico. Trump gli ingiunse brutalmente di sedersi e di cedere il microfono. Quello, imperterrito, continuava a pretendere una risposta. E Trump: “In tutta onestà, credo che lei dovrebbe lasciare a me il compito di governare il paese. Lei si occupi invece della sua Cnn, che dovrebbe vergognarsi di averla alle sue dipendenze. Lei è davvero maleducato, un pessimo soggetto (a terrible person). Se la licenziassero gli share di ascolto sarebbero molto migliori. Quando lei dà false notizie (fake news) – cosa che la Cnn fa a tutt’andare – siete nemici del popolo”. Seguito da un perentorio: “Basta, lasci quel microfono”. Acosta non l’aveva lasciato. Altri erano intervenuti a difendere il loro collega: “Lo lasci stare, fa solo il suo mestiere”. Acosta divenne l’eroe del giorno. Non oso immaginare cosa avverrebbe da noi. Trump non smise di maltrattare i giornalisti, specie se donne e specie se di colore. Ma sei anni dopo ha dovuto accettare, con la coda tra le gambe, che fosse proprio la Cnn a ospitare il dibattito con Biden.
 

Trump, da poco alla Casa Bianca, si era spazientito con Jim Acosta, della Cnn. Biden non è molto più gentile con i giornalisti


Biden non è molto più gentile con la stampa. Alla vigilia delle elezioni di mid term del 2022 il corrispondente dalla Casa Bianca della Fox (rete di destra) gli aveva gridato al termine di una conferenza stampa nella East wing: “Mr. President, ritiene che l’inflazione sia una liability, qualcosa a suo sfavore?”. E Biden, sarcastico, sibilando tra i denti, ma in modo che tutti potessero sentirlo: “Che stupido figlio di puttana (son of a bitch)! Cosa vuole che gli dica, che è un grande vantaggio, a great asset? Ma che domanda cretina!”. Più di recente, alla vigilia dell’invasione russa dell’Ucraina, a un altro giornalista della Fox che gli aveva chiesto: “Perché sta aspettando che sia Putin a fare la prima mossa?”. La risposta era stata: “Che domanda stupida!”.
  

   

Si sprecano anche gli insulti internazionali. Biden aveva dato a Putin dell’assassino (il che è incontestabile, ma non è fine diplomazia dirlo, specie se non riesci a mandarlo via). Trump e Kim Jong Un si erano scambiati carinerie anche peggio. Il pacato Mario Draghi aveva dato a Erdogan del “dittatore”. L’oscar degli scambi di insulti “presidenziali” spetta però all’America latina. Javier Milei, il populista anarchico divenuto presidente dell’Argentina, ha dato al presidente colombiano Gustavo Petro del “terrorista assassino”, e al presidente messicano Andrés Manuel López Obrador del “facho conservador”, tacciando per giunta i sostenitori di quest’ultimo di essere “membri del club di quelli che hanno il pene piccolo”. Sempre Milei aveva dato del “comunista” e dell’“incarnazione del Maligno” al suo conterraneo Jorge Bergoglio. Ma sembra che Papa Francesco l’abbia cristianamente perdonato.
 

Richard Nixon, con un colpo di genio, aveva fatto la pace con la Cina comunista. Ci andava però pesante in insulti, volgarità ed epiteti diretti alla stampa ostile e agli avversari politici interni. Lo faceva in privato, durante le riunioni alla Casa Bianca con i suoi collaboratori, non in pubblico. Erano commenti rubati, non profferiti apposta perché tutti sentissero. Ronald Reagan in fatto di gaffes non fu secondo a nessuno. Ma aveva gran senso dell’humour. Durante le primarie repubblicane del 1980, uno dei moderatori cercò di interromperlo perché aveva superato i tempi concordati. Lui gli ritorse: “Io questo microfono l’ho pagato!”. La battuta gli fece vincere le presidenziali. Non era proprio farina del suo sacco. L’aveva ripescata da un vecchio film del 1948: State of the Union. Vinse alla grande anche il secondo mandato. Restò popolarissimo, malgrado continuassero a pizzicarlo per i suoi vuoti di memoria e dargli del rimbambito. Commosse tutta l’America quando, ormai in pensione, annunciò pubblicamente che gli era stato diagnosticato l’Alzheimer. Se Biden, tacciato ora anche lui di senilità, avesse anche solo metà della sua capacità di far ridere e comunicare simpatia, avrebbe la rielezione in tasca.
 

Nixon, che aveva fatto la pace con la Cina comunista, ci andava però pesante in volgarità e insulti diretti alla stampa ostile e agli avversari politici


Una battuta, anche volgare e oscena, rivolta ai propri avversari politici, non ha mai danneggiato chi la pronuncia. Lincoln era feroce, specie con i suoi generali. Nel 1862 licenziò George McLellan, colpevole di eccessiva lentezza nel condurre la campagna contro i Sudisti. Gli scrisse: “Se l’esercito non le serve, vorrei prenderlo io un attimo in prestito”. McLellan si sarebbe candidato contro di lui alle successive presidenziali. E avrebbe perso ignominiosamente. Di un altro generale Lincoln avrebbe detto: “Ha la testa dove dovrebbe avere il culo”. Woodrow Wilson era convinto che la Lega delle nazioni avrebbe evitato guerre future. Se l’era presa con i senatori che avevano votato contro l’adesione degli Usa: “Non sanno che farsene della testa, se non come nodo per tenere insieme il resto”. Franklin Delano Roosevelt ce l’aveva, tanto per cambiare, soprattutto con la stampa che boicottava il suo New Deal. A un reporter del Chicago Tribune, il quale tacciava di attentato alla libertà di stampa l’imposizione ai giornali di contrattazione collettiva, salario minimo e controlli antitrust, rispose: “Dica a Bert McCormick (il padrone ultra conservatore della concentrazione di giornali attorno alla Tribune) che vede cose sotto il letto”. Truman disse, nel 1952, del suo allora rivale, ed ex comandante supremo delle truppe alleate in Europa, Dwight Eisenhower, che “di politica non sa proprio nulla, non più di quanto un maiale sappia delle domeniche”. Fu eletto Eisenhower. Lyndon Johnson disse dell’allora capogruppo repubblicano al Senato (e poi presidente dopo l’impeachment di Nixon), Gerald Ford, che “aveva giocato troppo football (il violentissimo football americano, altro che il nostro calcio) senza mettersi l’elmetto”.
 

L’insulto è una strategia politica come un’altra. Può funzionare se è quello che ti chiedono i tuoi elettori. Uno studio del 2021 dello svedese Kristain Pandov su 12 dibattiti nelle ultime sei presidenziali americane (Politics and ‘Playing Rude’, A comparative Analysis of Impoliteness in American Presidential Debates 2000-2020) rileva una aggressività in crescendo da parte di Donald Trump. Gli giovò, nel 2016, contro Hillary Clinton, dire ad alta voce: What a nasty woman, che donnaccia. Nel dibattito con Biden non ha potuto interromperlo e dargli sulla voce, perché la regola era chiudere il microfono a ciascun candidato quando parlava l’altro. Trump ha ripiegato sulla mimica. Lo si è visto alzare gli occhi al cielo e fare facciacce. Non essere interrotto non ha giovato a Biden, che è inciampato da solo. Ma l’aggressività ha i suoi limiti. Dopo un po’ stufa.
 

Nel suo cinquecentesco Galateo overo de’ costumi, messer Giovanni della Casa insegnava ai gentiluomini a ben comportarsi a tavola, a vestirsi adeguatamente e, soprattutto a favellare in modo appropriato, evitando di dire parolacce. Ma anche a non maltrattare e non mostrarsi arroganti con le persone di rango inferiore, specialmente i poveri cristi. Insultare i pari grado in politica può avere i suoi pro e i suoi contro. Insultare chi è inferiore, il cittadino qualunque, è particolarmente odioso. Nicolas Sarkozy nel 2008 stringeva mani all’inaugurazione di un Salone dell’agricoltura, quando uno si rifiutò di stringergliela: Non mi tocchi, non voglio sporcarmi le mani”.  “Casse-toi, pauv’con!”, ma va a…, povero coglione!, la reazione del presidente. Filmata e trasmessa in tv, gli sarebbe costata la rielezione. Non valse che si giustificasse: “Ho i miei difetti, ma mi è difficile, anche da presidente, non rispondere a un insulto. Non è che uno può pulirsi i piedi (s’essuyer le pieds) su di te solo perché sei il presidente”. Avevo 10 anni quando i miei mi portarono per la prima volta a Parigi. Mi colpirono due cose: le tette nude e perfette delle ballerine dell’Olympia, e il modo in cui i comici in tv prendevano in giro, senza ritegno, De Gaulle. Le general non reagì mai. In alcun modo. E i francesi continuarono ad adorarlo. Lezione senza tempo, che qualcuno dovrebbe forse apprendere anche dalle nostre parti.
 

Nell’antica Atene Aristofane si faceva gioco, con doppi sensi sanguinosi, che gli spettatori intendevano perfettamente, di tutti i potenti della sua epoca. Di gran parte di quelli ci si è dimenticati. Di lui e delle sue commedie no. Ai trionfi di Cesare i suoi soldati cantavano versi sconci diretti al loro comandante. Da nessuna parte si dice che lui li abbia puniti. E’ vero, Augusto poi introdusse il delitto di lesa maiestatis. Ma riguardava gli avversari politici, non la gente comune. Insulto, denigrazione, calunnia erano stati moneta corrente durante le guerre civili. Lui li aveva usati e promossi a piene mani. Specie contro il suo nemico Marco Antonio e la sua “puttana” straniera, Cleopatra. Ma una volta emerso vincitore non ne aveva più bisogno. Preferì affidarsi agli agiografi. Che però erano di altissimo livello, mica degli adulatori da quattro soldi. Virgilio, per menzionarne solo uno. Fu spietato con quelli che riteneva insidiassero il suo potere. Censurava gli storici. Ma non i poeti. Evidentemente perché non gli conveniva. A eccezione forse di Ovidio, che fu mandato in esilio sul Mar Nero a causa, a quanto ci dice lui stesso, del carmen e dell’error. Ma non sappiamo in che cosa consistessero, se avessero a che fare con la politica.
 

In Cina, in Russia, in Iran, non si può insultare, o anche solo criticare il capo, o l’ideologia che quello rappresenta. Pena perdere la testa. Il potere non sopporta in alcun modo di perdere la faccia. L’ingiuria e l’insulto sono a senso unico, solo verso chi il potere non ce l’ha. Di campionario di ingiurie ne hanno a profusione, molto più del nostro sboccato Occidente. L’intellettuale cinese più rispettato da Mao, che non parlava certo forbito riferendosi ai propri avversari (specie gli avversari all’interno del suo partito), era Lu Xun. Che scrisse un saggio sull’insulto, la parolaccia, il tamadi (… di tua madre) come caratteristica nazionale. Della mia infanzia in Turchia mi sono rimasti i nomi dei cibi e le parolacce, ero capace di snocciolare un intero küfür, una sfilza di oscenità, imprecazioni, maledizioni, insulti. Vi prego di credermi se vi dico che non sono in grado di padroneggiare un’analoga ricchezza di linguaggio e profanità in nessuna delle lingue che poi ho frequentato da adulto. Nemmeno in italiano. Forse in inglese, ma solo ricorrendo ai prontuari sulle parole ingiuriose di cui fa uso Shakespeare. Il paradosso è che Cina e Iran (ho meno cognizione della Russia) sono culture in cui è fortemente, profondamente radicato il bon ton. La tradizione persiana dal taarof, della cortesia formale, non ha eguali. Can che abbia non morde, si suole dire. Ma attenti al cane che non abbaia.
 

In Cina, in Russia, in Iran, non si può insultare, o anche solo criticare il capo, o l’ideologia che quello rappresenta. Pena perdere la testa

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