Liz Truss (LaPresse)

un brusco risveglio

Musi lunghi e idee strampalate dei Tory celebri rimasti senza seggio

Cristina Marconi

Dall'ex premier Liz Truss all’eterna promessa Penny Mordaunt, fino al vittoriano Jacob Rees-Mogg: tanti volti noti del partito sono stati mandati a casa. E ieri tra i conservatori è stato tutto un susseguirsi di polemiche e accuse per la clamorosa sconfitta

E’ una rarità che un ex premier non ce la faccia a farsi rieleggere, ma Liz Truss è una da record e dopo 45 giorni al governo ha inanellato pure questa perla; l’eterna promessa Penny Mordaunt, che all’incoronazione di Re Carlo ha camminato impugnando una spada d’oro in mondovisione con ammirevole gravitas e un cerchietto blu che sembrava una tiara, non ce l’ha fatta; un’icona di questi anni folli come il vittoriano Jacob Rees-Mogg, che cercava soluzioni sempre più a destra e non ne ha mai trovata una, è stato mandato a casa; e poi ci sono le storiche roccaforti conservatrici un tempo occupate da personaggi di spicco che non si sono ripresentati – la Uxbridge di Boris, la Maidenhead di Theresa May, ma pure la Finchley di Margaret Thatcher, per guardare molto indietro – passate di mano, scappate dall’esorcismo di un partito uscito di senno da un po’.

 

Grant Shapps, un decennio ai vertici, ex ministro della Difesa e ora, livido, è finito a dire che la gente è stanca di “questa telenovela politica senza fine” e a ribadire la formula, un bel po’ consolatoria, secondo cui “non è tanto il Labour che ha vinto quanto i Tories che hanno perso”.  Possibile, anche se a conti fatti non fa nessuna differenza ed è forse degno di nota, per i conservatori, che il Labour abbia vinto puntando tutto, più che sull’ideologia o gli ammiccamenti, sulla propria compattezza, valorizzata da un rivale in cui le liti e le polemiche non si sono sedate neppure in campagna elettorale. E che ora sono più accese che mai, mentre inizia il blame game sulle ragioni della sconfitta più pesante dall’epoca vittoriana. Rishi Sunak, che non ha l’istinto assassino e ormai si è capito, si è dimesso dandosi la colpa, in un discorso mesto e dignitoso, con la moglie poco dietro intrappolata in un vestito dalle geometrie impossibili. “Ho dato tutto a questo lavoro, ma avete mandato un chiaro segnale che il governo  deve cambiare e il vostro è l’unico giudizio che conta”, ha detto, prima di andare via da una Downing Street dove le sue figlie, ha aggiunto con fierezza, hanno potuto accendere le candele di Diwali, un progresso che fino a qualche anno fa sarebbe parso impossibile. 

Intorno a lui il fair play è meno evidente. Mentre Sir Keir fa la storia annunciando “un governo non gravato dalla dottrina”, i Tories rimangono dogmatici anche nel fallimento. Ieri è stato tutto un darsi addosso tra chi diceva che la chiave era respingere gli arrivi sulla Manica e mostrarsi più duri di ReformUk (sempre Rees Mogg, che ha anche detto di vedere in Nigel la figura carismatica che manca al paese) mentre Jo Johnson, fratello di Boris ed ex ministro, rimpiangeva che non si fosse guardato di più al centro. Per completezza, va detto che papà Johnson ha invece votato per i LibDem. Anche Suella Braverman, ministra dell’Interno secondo cui essere un senzatetto “è una scelta di vita”, ha dichiarato il suo debole per Farage, che lei vorrebbe nei Tories, partito che sogna di guidare.

 

In pole position per la successione ci sono anche Priti Patel, che un tempo passava per essere la più spietata sull’immigrazione e ora è stata eclissata, e Kemi Badenoch, che invece è pragmatica, astuta, femminista e sa quando tacere. Poi ci sono i soliti Jeremy Hunt, Tom Tugendhat, qualcuno parla addirittura di una reggenza di Cameron, forse per ridere nel pianto. Robert Buckland, ex lord cancelliere, ha detto che sarà “come vedere un gruppo di calvi litigare per una parrucca”, mentre i saggi del partito implorano di stare tutti calmi e riflettere, anche perché le cose non sono andate così male tutto sommato: in settimana alcuni sondaggi avevano parlato di 53 seggi e che, sotto questa luce, aver superato quota 120 è quasi euforizzante. E’ di questi giorni la notizia che cinque richiedenti asilo se ne sono andati volontariamente in Ruanda, finale mesto di una misura costosissima e controversa su cui Sunak aveva puntato tutto in quel tempo assurdo e sospeso in cui la lotta all’immigrazione sembrava l’unico problema all’orizzonte, prima del brusco risveglio. 

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