I soldi di Kyiv

Quanto costa davvero far funzionare l'Ucraina

La moratoria sugli interessi sta per scadere. Il budget in bilico nel “cantiere più grande del mondo”

Cecilia Sala

Kyiv ha bisogno di 7 miliardi al mese per funzionare. Le 315 mila imprese che sono nate nel 2023 e il rischio default ad agosto

La libreria Sens su viale Khreshchatyk, il corso centrale di Kyiv, ha soffitti di quattro metri e grandi vetrate, un arredamento moderno con i pavimenti laccati di giallo, una caffetteria e una zona studio piene di persone. E’ una delle 315 mila nuove attività che si sono registrate alla Camera di commercio ucraina nel 2023: sono imprese, partite Iva e negozi che hanno aperto in un anno di guerra. Nel febbraio del 2024, nel secondo anniversario dell’invasione totale ordinata da Vladimir Putin, la capitale festeggiava il ritorno a casa del sessanta per cento dei profughi ucraini scappati quando i carri armati russi hanno varcato i confini da nord, da sud e da est. Le nuove aziende che sono nate e le persone che sono tornate permettono all’Ucraina di raccogliere le tasse che servono a pagarsi da sola circa la metà della propria spesa pubblica – l’equivalente di tre miliardi e mezzo di euro al mese. Ma tre miliardi e mezzo non bastano. Kyiv, per stare in piedi in tempo di guerra, ha bisogno di sette miliardi per pagare gli insegnanti, i medici e per aggiustare le centrali elettriche che sono uno dei bersagli preferiti dei missili di Putin. E poi per pagare gli stipendi ai soldati, i risarcimenti alle vedove e per rifare le strade indispensabili tra quelle distrutte dalle bombe russe o danneggiate dal passaggio continuo dei cingolati che corrono verso il fronte.

 

Dopo il suo insediamento e prima dell’invasione totale, il presidente Volodymyr Zelensky era stato criticato da alcuni gruppi ultra nazionalisti piccoli in termini di iscritti ma molto vocali. Il rimprovero a Zelensky era: invece di comprare armi per difenderci da una probabile aggressione di Putin, stai investendo molto per rifare l’asfalto in alcune zone dell’est, ma quelle strade tra poco non saranno più nostre, saranno russe, se non ci armiamo a sufficienza subito. Le stesse strade nel 2022 permetteranno ai rinforzi di raggiungere in fretta la linea di contatto tra i due eserciti per bloccare l’avanzata russa e serviranno ai civili delle aree più a rischio a evacuare per non rimanere presi in mezzo nei combattimenti o intrappolati dall’occupazione. 

 

Gli ucraini oggi come allora preferirebbero non essere costretti dalle circostanze a scegliere tra le armi per difendersi e le strade. 
Del grande pacchetto da sessantuno miliardi approvato dal Congresso degli Stati Uniti alla fine di aprile, dopo che i repubblicani fedeli a Donald Trump lo avevano tenuto in ostaggio per cinque mesi, soltanto otto miliardi andranno direttamente nelle casse del governo ucraino. La maggior parte del totale è destinata a pagare gli stipendi, le bollette e le materie prime delle fabbriche americane che producono armi. Nel frattempo l’Ucraina è in affanno e potrebbe essere costretta a dichiarare default tra poche settimane: il primo di agosto.

 

Negli ultimi due anni, i creditori stranieri hanno accettato che Kyiv sospendesse il pagamento degli interessi sul proprio debito. E’ stato uno sgravio imponente e un risparmio che vale da solo il quindici per cento del pil del paese. L’Economist ha calcolato che, se i creditori non avessero fatto questo patto con il governo Zelensky, gli interessi sul debito sarebbero stati la voce più alta del bilancio pubblico ucraino dopo la Difesa. Però la moratoria concordata con i creditori privati stranieri scade il primo agosto e l’Ucraina – prosegue l’Economist – adesso ha meno di un mese per provare a evitare il fallimento. 

 

Se ci fossero anche gli interessi da pagare, le uscite mensili non sarebbero di sette miliardi al mese ma una cifra più alta e insostenibile. Il governo prova a fare la sua parte con un nuovo programma di privatizzazioni che ha visto finire all’asta miniere, società della chimica, un grande centro commerciale della capitale e l’albergo più famoso di Kyiv, che si chiama “Ucraina” e svetta sulla piazza principale, Maidan. L’hotel è lì da sessant’anni e ha visto passare davanti alle proprie finestre molti appuntamenti con la storia. E’ nella hall in marmo dell’hotel Ucraina che, durante la protesta rivoluzionaria che cacciò il presidente filorusso e curvò il destino del paese dieci anni fa, quando i cecchini spararono ad altezza uomo contro i manifestanti ammazzandone un centinaio, vennero portati i corpi sanguinanti dei feriti e un gruppo di medici volontari provò a curarli. Gli ucraini considerano quei morti le prime vittime della guerra voluta da Putin ancora in corso. L’obiettivo del programma di privatizzazioni governativo è un ricavo modesto – realista considerate le circostanze – di cento milioni di dollari.

 

“Ad aiutarci con i tre miliardi e mezzo che già oggi, senza pagare gli interessi sul debito, ogni mese ci mancano per arrivare a quota sette miliardi sono soprattutto l’Unione europea e la Banca mondiale”, dice al Foglio Maria Mezentseva, la vicepresidente della commissione per l’Integrazione europea alla Verchovna Rada, il Parlamento di Kyiv. Mezentseva ha trentaquattro anni, è nata nell’est, a Kharkiv, da ventenne se ne andò dall’Ucraina per studiare all’estero e poi si trasferì a Bruxelles per lavorare dentro la macchina delle istituzioni europee, finché Servitore del popolo, il partito del presidente, le chiese di tornare per candidarla. “E’ faticoso ma possibile. Ogni mese c’è un problema nuovo, ogni mese ci inventiamo una soluzione nuova. Adesso l’emergenza è l’elettricità, non abbiamo mai avuto così tante centrali fuori uso come durante questa estate, e dobbiamo contenere ancora di più i consumi artificialmente, con i blackout controllati, per fare scorte di energia per l’inverno. Ma ci siamo messi d’accordo con un po’ di amici nell’Unione per comprare i vostri generatori a benzina: significa metterci una pezza, perché non può essere una soluzione di lungo periodo”. 

 

Le 315 mila nuove attività nate nel 2023 hanno bisogno di energia per funzionare e poi pagare le tasse. Questa primavera il presidente russo ha fatto la guerra anche alle fonti rinnovabili di Kyiv, i missili del Cremlino hanno preso di mira come mai prima le dighe che alimentano le centrali idroelettriche e ne hanno messo fuori uso l’ottanta per cento. I russi all’inizio dell’invasione hanno occupato la centrale di Zaporizhzhia, così da allora sottraggono agli ucraini tutta l’energia che in tempi di pace produceva la più grande centrale nucleare del paese e del continente. La produzione di watt in Ucraina – che prima della grande invasione era uno dei maggiori produttori di energia d’Europa – si è dimezzata. “Ora ci servirà cominciare a importare un po’ di elettricità in più da ovest, cioè da voi”, dice Mezentseva. 

 

Quattro giorni dopo l’inizio dell’invasione totale, il 28 febbraio 2022, il presidente Zelensky presentò la domanda formale di adesione all’Unione europea per conto del suo paese. Poche settimane dopo l’Ucraina si scollegò dalla rete elettrica russa e si collegò a quella dell’Unione nel primo grande passo verso l’integrazione europea, fatto in tempi in cui i carri armati russi dilagavano fino a Bucha e Irpin, cioè fino ai bordi della capitale. “Grazie a quella mossa adesso possiamo importare energia da chi è disposto a darcela, l’occidente e non la Russia.  E noi, per sostenere questo ritmo di aiuti europei, dobbiamo fare la nostra parte: significa che – oltre a fermare con i nostri corpi l’avanzata di Putin – dobbiamo fare le riforme. Secondo le statistiche oggi siamo uno dei parlamenti più produttivi e rapidi del mondo: per stare in linea con le richieste di Bruxelles approviamo una media di quaranta leggi al mese”, prosegue Mezentseva, che è sposata con uno di quei corpi che fermano l’invasione, un comandante della brigata che difende la città di Kharkiv. Lei si occupa dell’integrazione civile con l’ovest e lui di quella militare, viaggia in Europa per addestrarsi e parla molto con i colleghi della Nato – frequenta Bruxelles, la sede dell’Alleanza atlantica, insieme a lei.

 

Zelensky vuole sfruttare la ricostruzione per collegare le infrastrutture del suo paese a quelle dell’Unione europea, come ha già cominciato a fare con la rete elettrica e, il mese scorso, con la rete internet e il roaming dei dati. Ma se l’Ucraina dichiarasse default ad agosto si creerebbe un problema di fiducia tra gli investitori privati che devono finanziare “il cantiere più grande del mondo”, come lo ha soprannominato la Camera di commercio di Kyiv. La ricostruzione del paese vale settecentocinquanta miliardi di dollari o – secondo gli ultimi calcoli di Bloomberg – fino a un trilione di dollari. 

 

Sergiy Tsivkach, il direttore esecutivo dell’ufficio governativo dedicato ad attrarre investimenti esteri, ha notato che un po’ di aziende internazionali negli ultimi mesi hanno aperto (o riaperto) i propri uffici a Kyiv per non farsi trovare impreparate quando arriveranno gli appalti di quella che si preannuncia essere la più grande opportunità di investimento in una ricostruzione dallo European Recovery Program – più famoso con il soprannome “piano Marshall” – alla fine della Seconda guerra mondiale. Il piano Marshall però partì settantasei anni fa a guerra finita mentre l’aggressione russa dell’Ucraina potrebbe durare ancora dieci anni. Per il momento a Kyiv si vedono più proposte e promesse che fondi, con qualche eccezione. “Sicuramente sarà un cantiere enorme. Ma è vero che, prima di arrivare a quel traguardo, abbiamo una serie di questioni da risolvere e non abbiamo ancora una soluzione. Gli ucraini non perdono tempo e hanno già cominciato a ricostruire ponti ed edifici nonostante il conflitto, perché loro non possono aspettare”, dice al Foglio Domenico Campogrande, il direttore generale della Federazione dei costruttori europei. Un’associazione di cui fanno parte anche le imprese del settore con sede in Ucraina, che Campogrande chiama “il ventottesimo stato europeo”. 

 

“Per le nostre aziende ci sono soprattutto due ostacoli. La difficoltà a trovare manodopera, perché per il momento non ci sono abbastanza lavoratori sul posto per far fronte a tutto quello che andrà ricostruito. E la sicurezza sul lavoro, che non riguarda soltanto i pericoli evidenti, il pericolo di attacchi missilistici russi, ma per esempio l’amianto che è molto presente negli edifici ucraini distrutti. Serve una grande bonifica oltre a una grande ricostruzione”, spiega Campogrande. La task force dei costruttori ha messo in contatto le imprese edili ucraine con gli architetti e i produttori di materiali europei, e i rapporti bilaterali con le singole città hanno permesso di sveltire le procedure. Così i danesi sono già all’opera per ricostruire la città di Mykolaïv, nel sud, che dopo la controffensiva di successo a Kherson nel novembre del 2022 è più lontana dalla linea del fronte e più protetta. Dei prossimi passi, difficili, per mettere in piedi “il cantiere più grande del mondo” si parlerà alla conferenza internazionale sulla ricostruzione dell’Ucraina nel 2025 – che si terrà in Italia. 

Di più su questi argomenti: