Foto LaPresse

futuro in bilico

Affossare Biden, e poi? L'azzardo Kamala Harris e i candidati nebulosi

Giulio Silvano

L’argine attorno al presidente americano è crollato, ma i democratici non hanno un’alternativa condivisa. Girotondo d’opinioni tra favorevoli e contrari

Sta crollando il muro intorno a Joe Biden. Anche George Clooney e Stephen King, dopo anni ad appoggiare il presidente tra tweet e raccolta fondi, hanno deciso di chiedergli un passo indietro nelle elezioni presidenziali. Il “re del brivido” ha scritto: “Biden è stato un buon presidente, ma per l’interesse dell’America che chiaramente ama, è il momento di annunciare che non si ricandida”. Clooney ha scritto sul New York Times dicendo che a novembre “i democratici non potranno vincere con questo presidente”, e ha ricordato che al suo evento di raccolta fondi da 40 milioni, il mese scorso, Biden era uguale all’uomo del nefasto dibattito di Atlanta che ha portato il panico tra i dem.

Balbettii, occhi da zombie, frasi senza senso che hanno aperto questa crisi e hanno messo in dubbio l’integrità fisica del presidente ottantunenne. Un momento cardine di questa campagna, altrimenti piuttosto noiosa, in diretta tv, vicino a un Trump piuttosto energico. Da quel momento ogni occasione pubblica, che sia il vertice della Nato o l’intervista televisiva programmata per lunedì, diventa un test, un esame per mostrare che Atlanta è stata solo una giornata storta, che Biden aveva il mal di gola, che era in jet lag dopo il G7, e che può ancora battere Trump.
Fino a poco tempo fa c’era un accordo non scritto tra i democratici: difendere Biden a tutti i costi. C’era anche chi, come lo stratega di Hollywood Jeffrey Katzenberg, aveva cercato di spingere la narrazione del “vecchio è bello”, provando a trasformare Biden in un personaggio à la Clint Eastwood. Ma ora l’argine si è rotto. Alcuni deputati hanno chiesto a Joe di mollare. Anche il senatore Peter Welch ha detto che “Biden dovrebbe ritirarsi per il bene del paese”. Tra chi sta facendo una campagna per il ritiro, campagna considerata aggressiva da molti, come dal senatore John Fetterman, è il New York Times. Dice al Foglio Ben Smith, fondatore di Semafor, che “Il Times è in un momento in cui cerca di rivendicare la sua indipendenza”. Smith, che conosce molto bene la politica e i media americani, non aggiunge altro sull’eventuale ritiro di Biden. In generale, anche tra gli esperti, vista la situazione inedita, si attende: “E’ tutto ancora troppo nebuloso – dice Smith – e direi che chi deciderà probabilmente sarà Biden. Ma non è ancora troppo tardi per un nuovo candidato”. C’è anche, da parte della stampa liberal, una specie di imbarazzo, perché fino a ieri in molti difendevano la lucidità mentale di Biden. “Ieri mattina sul New York Times in edicola c’erano otto articoli sulla vecchiaia di Biden e zero sul comizio di Trump, dove ha detto delle cose assurde. Il casino di Biden si merita di essere coperto, ma anche l’estremismo di Trump”, ci dice David Corn, analista di Msnbc e autore di vari libri su Capitol Hill.

“Non possiamo dire se Biden mollerà, perché non sta mostrando alcun segnale di volerlo fare – continua Corn – Detto questo, la sua performance al dibattito contro Trump ha sollevato dei quesiti seri, e delle perplessità, a cui Biden non ha ancora risposto. Se non riesce a mostrarsi come un candidato vigoroso nei prossimi giorni, l’ipotesi del ritiro diventa più credibile”. I leader democratici chiedono a Biden una prova di forza, chiedono di dimostrargli che può davvero battere Trump e “salvare la democrazia”, come dice lui da tempo, vendendosi come l’unica forma di resistenza ad altri quattro anni trumpiani. 
Il saggista e professore di giornalismo Paul Berman ci dice chiaramente: “Biden dovrebbe andarsene. E’ stato il più grande presidente della storia moderna americana. E può ancora comportarsi da grande presidente. Non c’è niente che non vada nel suo giudizio da leader, non c’è davvero niente che non vada. Ma non riuscirà a mostrare il pericolo posto da Donald Trump. E quindi potrebbe perdere. E’ una cosa esasperante. Tragica”. Tra i politici democratici chi chiede il passo indietro non sembra la maggioranza, ma secondo i sondaggi nell’elettorato due democratici su tre vorrebbero un rimpiazzo. L’ex speaker Nancy Pelosi, vera aristocrazia democratica, come al suo solito senza sbottonarsi troppo ha ricordato all’mico Joe che il tempo stringe. La paura è che più si va avanti, meno spazio avrà un candidato alternativo per farsi conoscere. La fila di persone che chiede a Biden un passo indietro aumenterà, nonostante lui abbia detto chiaramente che resterà nella corsa presidenziale. Il partito che lui era riuscito a tenere unito, anche nel momento della frammentazione su Gaza, traballa. Ma nessuno tra quelli che si dedica ad affondare Biden sembra proporre un’alternativa credibile. 

Se c’è confusione sul da farsi, c’è confusione anche su chi potrebbe sostituire il presidente. Escono nomi da tutti i cappelli, ma l’erede naturale, la vicepresidente Kamala Harris, sembrerebbe la transizione più facile – anche per una questione di tempo, dato che la convention democratica inizia il 19 agosto. “Kamala forse è l’alternativa migliore per i democratici”, ci dice Corn: “Non tenerla in considerazione alienerebbe un grosso blocco del partito. E poi, un processo aperto per scegliere un altro candidato sarebbe troppo caotico, e creerebbe vari conflitti. Alla fine una primaria potrebbe produrre un candidato sconosciuto alla maggioranza degli elettori, che non ha l’esperienza nel portare avanti una campagna elettorale nazionale, che non ha accesso ai soldi raccolti da Biden (Harris ce l’avrebbe), e dovrebbe affrontare un’ondata di spot elettorali da un miliardo di dollari che cercano di definirlo, o definirla”, e una campagna trumpiana, dall’altra parte, che cerca di distruggerlo. Secondo Ben Smith “Kamala Harris ha faticato molto negli anni a comunicare quali sono le sue posizioni, per cosa combatte, ma alla fine si può considerare una politica americana piuttosto normale”. Ma queste non saranno elezioni normali, perché se da una parte c’è un anziano, forse troppo anziano, dall’altra parte un uomo accusato di decine di crimini, oltre che di aver cercato di bloccare il processo elettorale democratico, un uomo che smetterebbe di dare i soldi all’Ucraina che si difende da Putin. Dice al Foglio il giornalista di Politico Sasha Issenberg, autore di vari libri sulle elezioni, che scegliere la vicepresidente non è necessariamente sbagliato: “Se Kamala Harris fosse ancora al Senato sarebbe esattamente il tipo di candidato per cui i democratici dovrebbero strepitare perché sostituisca Biden. In quanto ex procuratrice darebbe del filo da torcere a Trump nei dibattiti, e poi ha sia un piede nell’ala progressista sia in quella moderata del partito. Probabilmente riuscirebbe a ottenere molto sostegno da parte degli elettori più giovani, in particolare gli afroamericani che rischiano di disertare la coalizione democratica”. Berman invece spiega che forse rifare delle primarie rapide sarebbe meglio. “Kamala Harris è un azzardo. Ma c’è un ampio numero di candidati plausibili nel Partito democratico. Lasciamo che competano per qualche settimana. Uno di loro vincerebbe alla convention del partito. E potrebbe anche essere Kamala! Chiunque sarà, sarà qualcuno di visibilmente giovane e vigoroso”, dice. 

C’è chi addirittura, in privato, tira fuori il 25esimo emendamento, un emendamento costituzionale di cui si era già parlato durante la presidenza Trump che permette di rimuovere il presidente se incapacitato per motivi di salute mentale. Per alcuni verrebbe considerato un golpe nei confronti di Biden da parte dell’establishment del partito. Ma anche verso i suoi fedelissimi, e verso la moglie Jill che continua a spingerlo a restare candidato. Ci dice Corn che “per i democratici qualsiasi passo avanti comporta dei rischi: che sia continuare con Biden, passare a Harris, o a una convention aperta. Devono calcolare qual è il rischio minore. Però, alla fine, chi deciderà è Biden”. Qualcuno su X scrive perfido: un ottimo motivo per sostenere Kamala Harris è vedere la faccia di Hillary Clinton quando verrà eletta una donna presidente che non è lei. Ma a preoccupare di più è il fatto che si dice che prima di scrivere l’editoriale sul New York Times, George Clooney abbia avuto una conversazione con Barack Obama.