Donald Trump - foto via Getty Images

Verso le presidenziali

Trump è pronto per la convention di Milwaukee: per ora gli sta andando tutto bene

Marco Bardazzi

Lunedì si apre nel Winsconsin la convention dei repubblicani e il Tycoon arriverà sul palco nettamente in testa nei sondaggi. Il merito non è solo dell'auto sabotaggio dei democratici, ma anche di una campagna elettorale programmata nei dettagli

La prima volta era stata caotica, dilettantesca, improbabile. Ed era finita con una vittoria che lui per primo non si aspettava, grazie a qualche aiutino esterno e alla scelta sbagliata, da parte degli avversari, della candidata da contrapporgli. La seconda volta era stata tutta in difesa, in un’atmosfera tossica, chiuso in una Casa Bianca isolata dai lockdown e costretto a combattere con rabbia contro un avversario, il Covid, che lo aveva completamente spiazzato. L’esito era stata una sconfitta che sembrava definitiva, ma era stato salvato da un partito che non aveva avuto la forza di archiviarlo per sempre.
 

La terza campagna presidenziale di Donald Trump, invece, fino a ora è stata la migliore. Politicamente parlando, un capolavoro. Costruito fin dalle primarie, sconfiggendo due avversari ben organizzati e forti come Ron DeSantis e Nikki Haley e portato avanti resistendo alle tempeste giudiziarie, per essere poi premiato da un paio di altri aiutini esterni: una Corte Suprema non proprio imparziale, che ha depotenziato l’effetto dei processi, e un avversario che sta esaurendo le energie proprio nel momento in cui servirebbe una vigorosa volata finale.
 

Lunedì si apre a Milwaukee, in Wisconsin, la convention dei repubblicani che incoronerà Trump come candidato ufficiale del partito e sarà il momento del trionfo per l’ex presidente e il suo team. Prima di allora, resta un ultimo test da affrontare per confermare che è una campagna costruita per vincere: la scelta del candidato vicepresidente. Se Trump non farà uno dei suoi colpi di testa che spiazzano i pronostici, ad affiancarlo ci sarà un politico solido e rassicurante: la short list sembra ristretta al governatore Doug Burgum e ai senatori J.D. Vance e Marco Rubio. Uno di loro andrà a completare un ticket presidenziale che promette di cambiare profondamente l’America. In meglio o in peggio, dipende dai punti di vista.
 

Trump arriverà a Milwaukee nettamente in testa nei sondaggi. Il vantaggio a livello nazionale non è irrecuperabile per il presidente Joe Biden, resta nell’ordine di due-tre punti percentuali. Ma è la situazione negli stati chiave che sta cambiando. E nel sistema elettorale americano è questo che conta. Il Cook Political Report, uno dei più autorevoli osservatori indipendenti, ha appena spostato nella casella dei repubblicani tre dei sei stati ritenuti oscillanti (Arizona, Nevada e Georgia), vede sempre più probabile la vittoria di Trump anche negli altri tre (Michigan, Wisconsin e Pennsylvania), ma soprattutto segnala che si sta erodendo il vantaggio in stati che i democratici consideravano sicuri, come Maine, New Hampshire o New Mexico.
 

Non è solo colpa del pessimo dibattito televisivo di Biden, né del suo mancato ritiro, è anche l’effetto di una campagna ben condotta dall’altra parte. Milwaukee sarà un momento di celebrazione per un team che fino a ora ha dimostrato ordine, disciplina ed efficacia, tutte cose che erano sempre mancate nell’universo trumpiano. E lo stesso Trump è cambiato, è apparso paziente e in pieno controllo sul palco del dibattito con Biden, poi ha trascorso due settimane quasi in silenzio, lasciando che i democratici si facessero male da soli. Quindi è tornato in scena martedì sera in Florida, con un comizio nel quale per la prima volta nella sua carriera ha parlato con cognizione di causa di “una valanga di voti” in arrivo e ha presentato sul palco il figlio diciottenne Barron, al debutto sulla scena politica. Quasi a voler ipotizzare scenari dinastici.
 

La convention 2024 del Gop (Grand Old Party) sarà la celebrazione di tutto questo ed è il punto di arrivo di un decennio folle e inedito. Un percorso cominciato nel 2015 alla Trump Tower, con la celebre discesa sulla scala mobile dorata per annunciare una candidatura che nessuno prese sul serio. Era un momento in cui il partito era allo sbando, diviso dalle lotte interne cominciate nel 2012 con la sconfitta di Mitt Romney nelle presidenziali contro Barack Obama, che segnò la fine dell’establishment che guidava il partito dai tempi di Reagan. La lotta per emergere in un Gop frammentato aveva portato a far scendere in campo ben diciassette candidati presidenti repubblicani.
 

Trump li spazzò via tutti semplicemente lasciando che si eliminassero tra di loro, conquistò una nomination inattesa ed ebbe anche la fortuna di veder emergere, dall’altra parte della barricata, la candidata più divisiva e meno amata che i democratici potessero mettere in campo: Hillary Clinton. La campagna di Trump nel 2016 fu un caos assoluto, ma nessuno aveva un antidoto politico contro i veleni che il celebre volto televisivo di The Apprentice iniettò nel sistema elettorale. Ad aiutarlo pensarono anche Vladimir Putin, inquinando l’informazione americana, e WikiLeaks di Julian Assange, diffondendo le mail rubate della Clinton. La vittoria fu più l’effetto dello sgretolamento che Trump aveva portato nel sistema politico americano, che non di una campagna elettorale ben studiata e con una strategia efficace. 
Nel 2020, dopo quattro anni di una presidenza ai limiti del distopico, furono i democratici a costruire con metodo e professionalità il percorso perfetto per Biden per sconfiggere Trump. Il presidente a quel punto era circondato da sopravvissuti, personaggi bizzarri che erano gli ultimi rimasti fedeli dopo le continue epurazioni alla Casa Bianca e consulenti esterni discutibili come Rudy Giuliani. La sconfitta fu netta, nonostante le accuse di brogli inesistenti che ancora circolano nel mondo Maga.
 

L’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021 segnò quello che tutti pensavano fosse l’epilogo di una carriera politica anomala. La vera data che probabilmente gli storici del futuro analizzeranno a fondo non fu però il 6 gennaio, bensì il 13 febbraio 2021. Perché quello fu il momento in cui il Partito repubblicano poteva chiudere una volta per sempre con il trumpismo, votando in Senato il secondo impeachment contro Trump, ormai già ex presidente. Finì 57-43, con sette repubblicani che votarono insieme ai democratici, ma mancarono dieci voti per raggiungere la maggioranza di due terzi prevista dalla Costituzione.
 

Da quel momento è cominciata la rinascita di Trump e per questo, storicamente, è un giorno che avrà un valore enorme. Forse simile, per chi lo vedrà in futuro, alla scelta che stanno facendo in questi giorni i democratici di arrendersi alla volontà di Biden di restare in corsa, senza sfidarlo: se a novembre perderà, saranno stati questi primi giorni di luglio quelli su cui il Partito democratico dovrà fare l’esame di coscienza.
 

Trump ha trascorso tutto il 2021 a ricostruire un percorso politico, poi nel 2022, quando già imperversavano le inchieste giudiziarie su di lui, ha imposto al partito una serie di candidati per le elezioni di midterm di novembre ed è andato incontro a una netta sconfitta. All’inizio del 2023 l’ex presidente sembrava di nuovo all’epilogo della carriera politica, ma i suoi avversari interni, da DeSantis alla Haley, sono stati lenti a muoversi e non efficaci a organizzare le rispettive campagne per le primarie.
 

È nel corso del 2023 che Trump ha costruito il percorso vincente che ora lo porta a Milwaukee. La campagna elettorale è stata messa nelle mani di due strateghi esperti ed efficaci: l’ex Marine Chris LaCivita, che ha dato ordine e disciplina alla presenza sul territorio dei volontari trumpiani e Susie Wiles, una veterana della politica che lavora con i repubblicani dai tempi di Reagan. La strategia social è stata curata da Dan Scavino, che lavoro da anni con l’ex presidente. La gestione dei rapporti con i giornalisti è stata affidata a Jason Miller e Steven Cheung, rapidi, efficaci e aggressivi.
 

Già in Iowa a gennaio, al primo appuntamento delle primarie, si è visto in campo un esercito motivato e vincente, che ha subito schiantato DeSantis e poi eliminato la Haley, oggi considerata una paria nel partito (non l’hanno neppure invitata a Milwaukee) nonostante abbia disciplinatamente “liberato” i 95 delegati che aveva conquistato, invitandoli a votare Trump alla convention.
 

In Wisconsin andrà ora in scena un grande show dove si racconteranno le gesta del quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti e si descriveranno gli scenari di ciò che farà il quarantasettesimo. Cioè sempre Trump. Sarà un momento di festa per il team trumpiano, e il momento per l’America di fare i conti con una piattaforma programmatica fatta di venti punti molto chiari, decisi uno per uno da Trump in persona. Per la prima volta in una piattaforma da votare a una convention repubblicana non c’è alcun riferimento all’aborto, un tema su cui l’ex presidente è sempre in difficoltà. Le battaglie culturali sono in fondo alla lista, appena accennate. A dominare è invece l’immigrazione, che compare in varie modalità in sei o sette punti programmatici, inclusi i primi due: “Sigillare il confine e fermare l’invasione dei migranti” e “Dar vita alla più vasta operazione di deportazione nella storia americana”. Più chiaro di così. Tocca agli americani adesso decidere se vogliono davvero veder attuati, nei prossimi quattro anni, i venti punti del programma di Trump.

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