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a rischio estinzione

Dio salvi il pub, dove pure Elisabetta I andava a bersi una pinta di birra

Dieci anni fa c’erano 55 mila public house in tutto il Regno. Oggi sono meno di 40 mila. E’ come se in Italia chiudessero tutte le pizzerie

Al bancone del “Ye Olde Mitre” non c’è l’imbarazzo della scelta. Il pub, un dedalo intricato di stanzine dai soffitti bassi di legno, pareti storte e scale sghembe, serve solo birra: non si può bere nessun’altra bevanda, nemmeno il “Tea”, che dovrebbe essere un classico. Figurarsi da mangiare: nisba. Come se non bastasse la povertà del menù, il posto è pure introvabile: “La Vecchia Mitra”, con l’articolo inglese arcaico “Ye” per “The” e la versione medievale “Olde” al posto di “Old”, è letteralmente incastonato in un vicolo di Londra così piccolo che uno deve passarci davanti varie volte per notarlo. E la via principale, Ely Place, è pure una strada privata senza uscita presidiata da una guardiola. Impossibile, per una persona normale, arrivarci, se qualcuno non lo accompagna o lo istruisce: a nessuno, nemmeno a un londinese nato e cresciuto nella città, verrebbe mai in mente di passare per Ely Place. 

Eppure, questa piccola gemma sconosciuta è forse uno dei posti più storici di Londra. La scritta 1546 sulla facciata esterna informa che qui si serve la bevanda nazionale britannica da oltre cinque secoli: è il pub più antico di Londra e del mondo. Quando fu spillata la prima pinta (un po’ meno di mezzo litro), il re era Enrico VIII, con le sue troppe mogli, ai tempi dello scisma dalla Chiesa di Roma, una Brexit religiosa del Medio Evo. La mitra del nome deriva dal fatto che il locale fu costruito dai servitori dei vescovi di Ely (cittadina vicina a Cambridge, sede di una imponente cattedrale) che usavano il palazzo accanto come loro residenza londinese e il pub era il “dopolavoro” della servitù. 

Quando il pub fu costruito, tutta la zona, oggi Holborn, era solo prati e pascoli, al confine con la City of London: una moderna via si chiama ancora Hatton Gardens perché quei prati erano i giardini del baronetto Christopher Hatton, proprietario di tutta l’area e, malignano i più irrispettosi, anche amante di Elisabetta I, la figlia di Enrico VIII e Anna Bolena. Ma questo non si può dire perché Elisabetta la Grande è passata alla Storia come la “Virgin Queen”.  

A un angolo del pub c’è il relitto di un albero ormai fossilizzato: era un ciliegio e leggenda vuole che la medesima Elisabetta ci danzasse attorno in compagnia proprio di Sir Hatton. La leggenda glissa invece sul fatto che Gloriana, la grande sovrana inglese, oltre che a danzare tracannasse anche la birra del pub insieme al suo presunto amante, ma questa è un’immagine che poco si addice a una regina.

La pinta è la quantità che viene sempre servita: non sentirete mai nessun inglese chiedere al bancone di un pub quanta birra bere perché non esiste altra misura. I bicchieri sono tutti tarati per contenere una pinta esatta di nettare alcoliso. I più temerari, o astemi, possono azzardarsi a chiedere una “half-pint”, mezza pinta, che va appunto specificata. Ma il barista li guarderà tra l’ironico e il compassionevole: nessun vero uomo beve mezza pinta.

L’Inghilterra del XVI secolo, che non era ancora Gran Bretagna (quella arriverà solo dopo la morte di Elisabetta medesima, senza figli, la corona sarà costretta a chiamare il re di Scozia per evitare la fine della monarchia), spiega anche l’origine della parola: pub, termine oggi in voga nella Società della Movida, è solo l’abbreviazione di public house, ossia una casa aperta a tutti. “I pub nascono come luogo di ritrovo per i comner, i sudditi, le persone che non erano nobili”, spiega John Warland, esperto di storia dei pub e autore del bellissimo libro fotografico “Local Legends”, con gli scatti del rinomato Horst Friedrichs.

Ma c’è anche una spiegazione storica. Nell’Inghilterra del Medio Evo non esistevano i ristoranti, né tantomeno cuochi (infatti la parola chef è di origine francese). Ma, soprattutto, nella Londra Tudor la gente comune viveva in tuguri senza cucine: erano un lusso che solo le case dei nobili sfoggiavano. I ricchi avevano cuochi privati che cucinavano la selvaggina che loro stessi riportavano a casa dalle sfarzose battute di caccia. La plebe, invece, andava a sfamarsi nelle public house: erano la mensa dei proletari, ma ancora non era nato Karl Marx a coniare il termine. Oltre al bisogno primario di riempire lo stomaco, il pub offriva anche un altro servizio essenziale: un tetto.

Se il clima britannico è rigido, secoli fa era ancora più inclemente. Dentro al pub ci si riparava dalla pioggia, una costante del meteo, c’era sempre un camino col fuoco acceso dove scaldarsi e volendo anche un pagliericcio dove dormire: molti pub moderni hanno tuttora camere al secondo piano, a richiesta. In quel caso si chiamano Inn (locande). “Affari nascono e affari muoiono nei pub: ancora oggi molti imprenditori e politici si danno appuntamento davanti a una pinta per stringere accordi o disfarne”, chiosa Warland. Anche Nigel Farage, oggi il personaggio politico più famoso d’Inghilterra, iniziò la sua carriera di trader di metalli grazie al pub: il suo posto preferito era il Jamaica House, che nonostante il nome non aveva nulla di esotico. Piccola coincidenza onomastica: Donald Trump, il compagno di merende di Farage, è nato a New York in un quartiere di periferia chiamato Jamaica.

I pub più curiosi sono raccolti in recente libro, con strepitose fotografie patinate che oltre al fascino di questi posti in legno un po’ sdruciti e rovinati, colgono la varietà umana e la vita dei Common People (come cantavano i Pulp, aedi del Brit-Pop in versione laburista, trent’anni fa).

L’esatto opposto del “Mitre” di Holborn è la “Holy Tavern” a Smithfield. Se la mescita di luppolo fermentato vanta secoli di vita, questo pub è un clamoroso falso storico: c’è scritto 1720 sulla facciata, ma si riferisce alla piccola palazzina, in stile georgiano. Il locale risale a pochi anni fa e imita il Brown Cafè di Amsterdam. Tutto sembra antico e vecchio, dai mobili alle pareti consunte, ma, come The Venetian di Las Vegas è tutto posticcio. Il che cozza enormemente con il quartiere che lo ospita, che risale all’Anno Mille: per secoli, lo Smooth Field (campo liscio) è stato il mercato dei bovini, una spianata di prati dove venivano vendute e comprate le vacche, insomma il Foro Boario di Londra, ricordato da una vietta lì vicino che porta il nome antico di Cowcross, l’attraversamento delle mucche. Poi la Regina Vittoria decise di sostituire lo spiazzo con dei mercati generali, coperti e dotati di servizi igienici: l’architetto Sir Horace Jones costruì il bellissimo Smithfield Market, tutto in ferro battuto e vetrate, ancora oggi in uso.
Gloria nazionale, emblema del paese, archetipo della cultura anglosassone, tra un piatto di Fish&Chips (rigorosamente Haddock, il pesce Asinello, mentre il Cod, il classico merluzzo, è roba da turisti o immigrati) e una partita a freccette, i pub stano diventando come i dinosauri: una specie sull’orlo dell’estinzione.

 

Il censimento ufficiale conta 3.500 pub nella sola Londra: sembrano tantissimi. Eppure, ogni giorno, ne chiudono due. Preoccupa, soprattutto, che la tendenza è in peggioramento. Due anni fa, le chiusure erano “solo” una al giorno. Dieci anni fa c’erano 55 mila public house in tutto il Regno di Sua Maestà Carlo III. Oggi, sono scese a meno di 40 mila. Al ritmo di mille saracinesche abbassate ogni anno, si calcola che nel 2050 chiuderà l’ultimo pub ancora rimasto nel paese: sette anni dopo che sarà stato stampato l’ultimo giornale di carta, secondo un’altra apocalittica profezia. I pub sopravvissuti finora sono ormai quasi tutti parte di Greene King, una catena che serve lo stesso cibo e la stessa birra ovunque. A peggiorar le cose, pure la proprietà che non è più inglese: è la KCA di Li Tzar Kuoi, miliardario di Hong Kong. Dunque, i pub inglesi sono in realtà cinesi. Come ogni multinazionale che si rispetti, Greene King si rifornisce da altre multinazionali: la birra è solo quella della Heineken. E’ tutto un pullulare di Asahi, Birra Moretti o Sans Souci, tutti marchi finiti sotto l’azienda danese. Trovare una Pale Ale locale, la tipica birra inglese, chiara e un po’ svampata, è un’impresa.

E’ come se in Italia stessero per scomparire le pizzerie e quelle rimaste servissero una Margherita surgelata della Cameo. Così come non si può immaginare, e dunque nemmeno esistere, l’Italia senza la pizza, il suo piatto nazionale; non si potrebbe pensare la Gran Bretagna senza i suoi pub. “Non credo che i pub moriranno – commenta Warland – sono un luogo di aggregazione e rimarranno in vita sempre, ma saranno diversi da oggi”. Ma un pub senza birra (che già oggi non è più la Ale), senza lo snooker, la campana dell’ultimo giro, senza le urla durante le partite di calcio, e relative risse da eccesso di pinte, che pub sarebbe? E’ un’Inghilterra senza più storia o radici. Sicuramente più sobria, ma infinitamente più triste. Altro che Extinction Rebellion contro il petrolio: l’unica estinzione per cui gli attivisti dovrebbero battersi è quella dei tradizionali pub.

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