la ricostruzione
Il 7 ottobre i civili si difesero da soli. Il vuoto di fiducia e il ritardo dell'esercito
La prima inchiesta sull'attacco di Hamas a Be'eri mostra l'impreparazione di Tsahal mentre avanzano i timori e la speranza per i nuovi negoziati sul rilascio degli ostaggi e il cessate il fuoco a Gaza
Yair Avital non è un soldato di professione, ha completato il servizio militare, sa tenere un’arma in mano, ha delle nozioni di sicurezza che in Israele non si scordano e il 7 ottobre sapeva dove si trovava il deposito di armi del kibbutz Be’eri. Avital faceva parte della kikat konanut, la squadra di sicurezza che in uno scenario di attacco sarebbe incaricata di occuparsi di una prima difesa, questione di poco tempo, prima dell’arrivo dell’esercito. Ma il 7 ottobre l’esercito non arrivava mai e Avital e gli uomini della squadra hanno combattuto per salvare la vita degli abitanti disarmati di Be’eri: una battaglia durata ore, costata la vita a quasi tutti i difensori del kibbutz, a centouno civili, trenta sono stati rapiti, la metà si trova ancora a Gaza nelle mani di Hamas. Avital venne ferito gravemente, perse molto sangue, sopravvisse e ricorda ancora che i soldati erano ammassati fuori dal kibbutz, non entravano. Non sapevano cosa fare, non erano addestrati per l’attacco simultaneo contro vari centri, non erano addestrati a contenere l'invasione perpetrata da trecento terroristi in un kibbutz. Be’eri si difese da solo, con un esito disastroso. I rapporti sulle intenzioni di Hamas esistevano da mesi, anche se forse non erano arrivati sul tavolo del primo ministro Benjamin Netanyahu. Alcuni ufficiali delle agenzie di intelligence e dell’esercito erano venuti a conoscenza del piano dei terroristi, lo ignorarono, non pensarono a una difesa appropriata in caso di attacco. Sono molte le inchieste aperte sull’attacco del 7 ottobre, ma nessuna aggressione aveva tante prove come a Be’eri, dove i civili si trovarono da soli a far fronte all’invasione massiccia dei terroristi. Altre inchieste verranno rese note e ieri il Jerusalem Post, quotidiano conservatore che per anni è stato vicino al primo ministro Netanyahu, sosteneva in un editoriale che è arrivato il momento che anche la politica faccia i conti con le responsabilità che hanno reso possibile l’attacco di Hamas, anche il premier, anche i ministri, non soltanto l’esercito.
Israele non esiste più come esisteva prima del 7 ottobre, era un paese abituato a fidarsi dell’esercito e dell’intelligence, si è ritrovato con una forza civile eroica che ha tentato di resistere all’attacco mortale di Hamas. Il patto di fiducia si è rotto e ora che si parla di negoziati per permettere il ritorno degli ostaggi e il cessate il fuoco a Gaza, gli israeliani che protestano per fare pressione e chiedere un accordo achshav, ora, temono di essere traditi di nuovo. Secondo gli Stati Uniti ci sono spiragli di ottimismo, Hamas e Israele continuano a negoziare, i terroristi, ormai indeboliti, sembrano pronti ad accettare alcune condizioni. Non mancano però le pretese, come il ritiro dal confine con l’Egitto: l’arrivo di Tsahal, l’esercito israeliano, fino alla frontiera egiziana è stata la mossa più determinante per fiaccare Hamas e troncare la sua capacità di rifornirsi. Vanno avanti colloqui paralleli, al Cairo e a Doha, poco si muove se non nell’ombra, ma sono ancora in piedi. Le operazioni militari di Israele degli ultimi mesi nella Striscia sono riuscite a mettere Hamas alle strette, alcuni membri del gruppo sono pronti a riconoscere un governo palestinese indipendente a Gaza e in Cisgiordania. Anche il presidente americano Joe Biden ha detto che non può esserci Hamas nel futuro della Striscia. Sono dichiarazioni, nessuno sa cosa pensi il leader di Hamas, Yahya Sinwar, che finora ha rifiutato ogni accordo.
L'editoriale dell'elefantino