problemi di donne
Quando la politica è un affare di famiglia
Jill che decide per Joe, l’ultima First Lady di una lunga lista. Dalla Livia di Ottaviano Augusto a Eleanor Roosevelt
Non è del tutto esatto dire che sarà Biden a decidere se passare la mano nella corsa alla Casa Bianca. No, sarà sua moglie Jill. C’è chi dice che lui non prende decisioni importanti senza prima consultarla. Per 47 anni è stata lei la sua principale sostenitrice. Lei a sorreggerlo nei momenti di difficoltà, a proteggerlo, a fargli da scudo umano, a difenderlo dagli attacchi della stampa e degli avversari, e dall’invadenza e dai consigli sgraditi dei suoi collaboratori e dei suoi amici. Qualcuno l’ha definita il “cane da guardia” dell’Oval Office. C’è chi ha messo a confronto le rispettive agende, ed è arrivato alla conclusione che, dei due, è lei che, per anni, ha partecipato a più iniziative, ha più viaggiato in lungo e in largo per l’America. Malgrado continui ad affiancare al lavoro di First Lady quello di insegnante volontaria in un community college (scuola statale) in Virginia.
Il problema Biden quindi sarebbe un problema di famiglia. Un problema di donne. Anzi forse due problemi di donne, titolava un opinion piece del Washington Post, riferendosi al problema Jill e al problema Kamala Harris. Che continua a fare quello che sono supposti fare i vicepresidenti: stare sempre “un passo” dietro al presidente, senza apparire troppo. Ma al tempo stesso è in pole position nel caso lui dovesse farsi da parte, quindi una minaccia per chi non vuole che lui non molli. Subito dopo il disastroso primo round televisivo con Trump l’intera famiglia (Jill, la sorella di Joe, Valerie Biden Owens, il figlio Hunter – quello in odore di affari allegri, e appena condannato per acquisto abusivo di arma da fuoco mentre era sotto stupefacenti – le nipoti, più altri dell’“inner circle”) era volata con il presidente agli Hamptons (la villeggiatura dei ricchi e famosi). Lì l’avevano convinto ad andare avanti come se niente fosse, senza guardare in faccia nessuno.
La famiglia in genere non consiglia bene i leader. Insomma, dalla famiglia mi guardi iddio, ché dai nemici mi guardo io. Augusto fu rovinato dai consigli di Livia. Certamente ne era innamorato. Ma le pesanti ingerenze in politica di lei, e in particolare sulla scelta dei successori (il problema numero uno di tutti gli imperatori romani e cinesi, di tutti gli uomini soli al comando) hanno pesato come un macigno sulla figura del principe. Tacito la fa a pezzi. E non è il solo a insinuare che, pur di promuovere alla successione suo figlio Tiberio, abbia fatto ammazzare tutti gli altri candidabili.
Mao fu rovinato da madame Jiang Qing. Era lei la promotrice più fanatica della Rivoluzione culturale. Lo difendeva come una tigre. Fu lei a incoraggiarlo a far fuori tutti i suoi rivali (cosa a cui Mao era probabilmente ben disposto). Riuscì anche a disfarsi del successore ufficialmente designato, il maresciallo Lin Piao, malgrado questi fosse il ministro della Difesa (il grilletto restava in mano a Mao, presidente della Commissione militare del partito). Deng Xiaoping, bersaglio dell’ultima forsennata battaglia di Jiang Qing e della sua Banda dei quattro, se la cavò solo per il rotto della cuffia. Morto Mao, Deng e gli altri marescialli sopravvissuti le resero la pariglia. La fecero arrestare nell’ottobre 1976, meno di un mese dopo la morte del grande timoniere. Il mio primo articolo da corrispondente dalla Cina fu sul processo a suo carico iniziato a Pechino a fine 1980. Fu condannata a morte, sentenza poi commutata in ergastolo. Sarebbe morta nel 1991 impiccandosi nel bagno dell’ospedale in cui era stata trasferita.
Mao fu rovinato da madame Jiang Qing. Lo difendeva come una tigre. Era lei la promotrice più fanatica della Rivoluzione culturale
Breznev, al tramonto ma senza rivali, fu rovinato da sua figlia Galina, coinvolta in una serie di storie di corruzione. Non che lui non se ne rendesse conto. “Hai voglia a essere rispettato da tutto il mondo, se poi è la tua famiglia a farti soffrire”, si sarebbe sfogato con uno dei massimi dirigenti del Pcus. Eltsin fu rovinato dall’avidità scandalosa della figlia Tatjana Dyachenko e di suo marito, capo di gabinetto del Cremlino. Al punto che finì per nominare suo successore Vladimir Putin, che con gli altri siloviki del Kgb aveva tutti i dossier in mano, in cambio della promessa, mantenuta, di immunità giudiziaria per la famiglia allargata che aveva fatto man bassa delle risorse di una Russia impoverita, esportando il bottino all’estero. Nicolae Ceausescu aveva messo molto del suo a farsi odiare. Ma la moglie Elena era ancora più odiata. Era stata lei a convincerlo a far massacrare nel 1989 i dissenzienti di Timișoara. Furono fucilati insieme mentre, sopraffatti dalla successiva rivolta, cercavano di scappare. Solo Stalin non ascoltava né si fidava di nessuno, nemmeno in famiglia. Anzi ammazzò la moglie Nadezda Allilueva (si disse che si era suicidata).
La rovina di Eltsin fu l’avidità della figlia Tatjana Dyachenko e di suo marito. Putin nominato successore in cambio dell’immunità giudiziaria
La famiglia, e il cerchio magico dei collaboratori più stretti, sono sempre stati i peggiori consiglieri. In ogni epoca e a tutte le latitudini. Napoleone, si sa, teneva famiglia. E si affidava a fratelli, sorelle e cognati, distribuendo posti e regni conquistati, lasciandoglieli saccheggiare, limitandosi a rimproverarli di tanto in tanto, solo quando esageravano e si facevano odiare troppo. Valéry Giscard d’Estaing non riuscì mai a levarsi di dosso l’affaire dei diamanti ricevuti in dono dal despota africano Bokassa. Non si è mai saputo a chi fossero destinati, se alla moglie, alla figlia o a uno dei suoi moltissimi amori. L’ex presidente avrebbe pubblicato nel 2009 un romanzo sulla storia d’amore tra una principessa britannica e un presidente francese degli anni 80. Molti credettero di individuare, nel personaggio della principessa, Lady Diana. Gli scandali della presidenza Sarkozy si trascinano tuttora, coinvolgendo, appena qualche giorno fa, in veste di indagata, la moglie Carla Bruni. Non è chiaro quanto, nelle decisioni politiche di Emmanuel Macron, pesi la moglie Brigitte, sua ex insegnante di lettere e latino al liceo di Amiens, quando lui aveva 15 anni e lei 40. Marine Le Pen si era liberata del padre, l’impresentabile fondatore del Front national, e della nipote ultrà Marion Maréchal. Ma non del resto della famiglia, che continua ad appesantirla come un’ancora al collo. I partiti-famiglia alla lunga non funzionano.
Valéry Giscard d’Estaing e l’affaire dei diamanti ricevuti in dono da Bokassa. Destinati alla moglie, alla figlia o a uno dei suoi moltissimi amori
Di Sara Netanyahu, consorte del premier israeliano, si dice che abbia molta influenza sulle scelte del marito. In particolare nel dissuaderlo dal mollare il potere e nell’incitarlo a resistere con ogni mezzo alle inchieste giudiziarie per corruzione in cui è coinvolto da anni, e alle proteste contro la riforma giudiziaria che dovrebbe mettere a tacere i giudici. Si dice che tutte le nomine passino al suo vaglio. E’ una donna vendicativa. Ne sanno qualcosa i collaboratori che hanno avuto screzi, o hanno espresso posizioni differenti da quelle della coppia. Ultima, in ordine di tempo, Gal Dubosh, che faceva parte della cerchia ristretta dei consiglieri dell’ufficio del primo ministro. Nel gennaio di quest’anno si era data molto da fare per far licenziare Eylon Levy, portavoce del governo dal 7 ottobre in poi, colpevole di aver preso parte alle proteste contro la riforma giudiziaria. Ma lei non aveva avuto nulla da ridire sui post su Facebook della propria portavoce, e capo dello staff, Tzipi Navon, che proponeva di strappare le unghie e scuoiare vivi “uno per uno” i responsabili del massacro, “conservandogli sino all’ultimo solo la lingua, di modo che possiamo godere delle loro grida, le orecchie di modo che possano udire le proprie grida, e gli occhi di modo che possano vederci sorridere”. E se l’era presa con analoga violenza con “i traditori interni, della sinistra (israeliana)”.
Succede nelle migliori famiglie. Era mancato poco che Franklin Delano Roosevelt fosse trascinato nel baratro dall’attivissima Eleanor. Era molto più “a sinistra” del marito. Oltre che il New Deal, sostenne con passione i diritti dei neri e delle donne, cause che sarebbero diventate di moda solo molto dopo. La stampa di destra la sottoponeva a un vilipendio continuo. Le caricature la rappresentavano con tratti antipatici. Tra le molte, ce n’è una che la mostra col marito a cavallo di un asino (il simbolo del partito democratico) sull’orlo di un precipizio, mentre sventola una bandierina con falce e martello. Un’altra la mostra impegnata in una delle sue conferenze stampa, attorniata da megere armate di penna e taccuino. E’ una presa in giro della sua attenta promozione dei rapporti con giornaliste donne. Alcune delle quali sarebbero diventate assidue frequentatrici della Casa Bianca, come Lorena Hickok e Dorothy Thompson, la corrispondente guerriera che per prima intervistò Hitler, facendolo infuriare. Eleanor scriveva, dal 1935 in poi, una colonna intitolata “My Day”, che compariva sui principali quotidiani sei giorni su sette. Un cartoon ostile invocò: “Buon Dio, per favore, fai che Eleanor si stanchi”.
I Kennedy erano molto “famiglia”. Bob era ministro della Giustizia del fratello John. Guidava in sua assenza tutte le riunioni più importanti, comprese quelle sulla sicurezza nazionale al tempo della crisi con Cuba. Tanto che nel 1978 il Congresso Usa approvò una legge che proibiva l’assunzione in incarichi politici alla Casa Bianca di parenti dei presidenti. Ma non c’è nulla da ridire su Jacqueline, almeno fino a quando è stata First Lady. Martha Washington veniva accusata di atteggiarsi a “regina”. Bess Truman parlava e appariva pochissimo. Si sarebbe dovuto aspettare il libro sulle First Ladies scritto dalla figlia Margaret, per apprendere di un “segreto gelosamente custodito”, la sua “partnership dietro le quinte”. Fu del resto lo stesso Harry Truman a far sapere, dopo la morte di lei, che l’aveva consultata “sul se combattere o meno in Corea, sull’usare o meno la bomba atomica, e sul dar vita o meno al Piano Marshall per la ricostruzione dell’Europa devastata dalla guerra”.
Nel 1978, dopo i Kennedy, passò una legge che proibiva l’assunzione in incarichi politici alla Casa Bianca di parenti dei presidenti
Il consigliere per la sicurezza nazionale di Reagan, Bud McFarlane, avrebbe testimoniato che le opzioni erano limitate da quello che Nancy Reagan avrebbe permesso al marito di fare o non fare. Quando verso la fine degli anni 80 mi trasferii da Pechino a New York, le televisioni americane martellavano in modo ossessivo con la campagna “Just say no!”, dite semplicemente no, contro le droghe, da lei fortemente voluta e promossa. Arrossii per lei quando venne fuori che incoraggiava il marito a rivolgersi al loro astrologo personale per le decisioni di politica internazionale.
Non ho mai avuto occasione di incontrare Nancy Reagan. Ho incrociato solo di sfuggita Hillary Clinton, che non amava molto gli europei. L’iperattività non le avrebbe giovato nello scontro diretto con Trump nelle presidenziali del 2016. Ho conosciuto invece Barbara Bush. Col suo casco di capelli bianchissimi e l’immancabile collana di perle, venne definita “la nonna d’America”. Colpivano i suoi modi squisiti, quanto quelli di suo marito. Ma dietro l’apparente bonomia casalinga aveva un’anima d’acciaio. Ci eravamo mancati di poco a Pechino. Bush senior, incaricato d’affari Usa in Cina dopo il riavvicinamento, era già rientrato per fare il capo della Cia. Per inciso, Nixon, l’artefice del disgelo con Mao, aveva una cerchia ristretta di consiglieri, ma questa non includeva fratelli e parenti, e nemmeno la moglie Pat. Ada Princigalli, la leggendaria prima corrispondente dell’Ansa a Pechino, mi raccontò di come Bush padre le aveva fatto recapitare un mazzo di fiori per ringraziarla di avergli dato dritte su come recarsi a Beidaho, la località di villeggiatura marina ancora off limits a tutti gli stranieri, diplomatici compresi. Gentili con tutti, Barbara e George Herbert Walker Bush sarebbero stati molto critici con il figlio George, quando questi divenne a sua volta presidente degli Stati uniti, e invase l’Afghanistan e poi l’Iraq. Poco ci mancò che gli dessero del cretino.
C’è stato chi si è dato la pena di classificare le first ladies americane. Ci sarebbero state le “umanizzatrici”, dedite a colmare la distanza tra il presidente, confinato alla Casa Bianca, e la gente comune. Le “aiutanti di campo”, che lavoravano gomito a gomito coi rispettivi mariti presidenti. Le “decorative”, ruolo a cui alcuni hanno relegato, forse ingiustamente, la povera Jacqueline Kennedy. Le “alter ego”, portate a identificarsi in tutto e per tutto col titolare e ad assumere un ruolo di policy makers. Le “sostenitrici morali”, dedite a sostenere il marito nei momenti di crisi e sconforto. Si potrebbe aggiungere la categoria delle “imprenditrici”. “Lady Bird” Johnson (il soprannome di “uccellino” le sarebbe rimasto appiccicato dal modo in cui la chiamava affettuosamente il consorte Lyndon, non per l’aspetto) con la sua eredità aveva comprato, nel lontano 1943, in piena Guerra mondiale, una stazione radio in Texas, che poi la rese milionaria. Le attività imprenditoriali del fratello Billy (e la fortuna della moglie Rosalynn) avrebbero avuto un ruolo determinante nel finanziare la campagna che portò Jimmy Carter alla Casa Bianca, da modesto coltivatore di noccioline della Georgia.
In quale categoria mettere Jill Biden? Apparentemente in quella dei “sostenitori morali”. Si erano conosciuti quasi mezzo secolo fa, quando lui, giovane senatore, cercava di riprendersi da una tragedia famigliare, la perdita della prima moglie e della figlia piccola in un incidente automobilistico. Aveva fatto da mamma ai due figlioletti rimasti orfani. L’aveva sostenuto nei rovesci politici. E quando nel 2015 gli morì, a causa un cancro al cervello, il figlio Beau. La donna giusta al momento giusto. Ma non suona particolarmente indovinato il momento per apparire sulla copertina del numero del prossimo agosto di Vogue, la rivista diretta dall’amica Anna Wintour (il diavolo in Prada), che le fa dire: “Decideremo noi del nostro futuro”. Noi chi?
Purché tanta premura non finisca in tragedia shakespeariana. Lei nel ruolo di Lady Macbeth. Lui nel ruolo di Re Lear, che ostinato rifiuta i consigli del fedele Kent, il quale cerca di dissuaderlo dal dare ascolto alle lusinghe delle figlie adulatrici e traditrici. Kent ha l’ardire di dargli del pazzo, di dirgli: “Cosa credi di fare, povero vecchio? (What wilt thou do, old man?)”. Lear lo scaccia in malo modo: “Via dalla mia vista! (Out of my sight!)” (Lear, scena I, 137-149).
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