“Siamo già stati qui”. Quand'è preda della confusione, l'America spara
Negli Stati Uniti d’oggi si fa più tifo a un comizio che a una partita di football, confondendo la partigianeria con la partecipazione, e “divisione” è la parola che corre amaramente sulla bocca di tutti
È strano, perché la distanza e la differenza tra le due epoche è abissale, tra i giorni in cui Chicago ospitò la leggendaria convention democratica del 1968 e la Chicago che in agosto dovrà diradare la nebbia riguardo l’identità della figura progressista destinata a battersi per la Casa Bianca – si tratti di ciò che resta di Joe Biden, oppure no. Eppure parallelismi e relative riflessioni sono inquietanti. Cinquantasei anni fa un esercito di manifestanti in favore della fine della guerra in Vietnam invase la Second City, accese una violenta guerriglia urbana con la polizia e tentò invano di sospingere Eugene McCarthy, il candidato pacifista, infine sconfitto da Hubert Humphrey, vicepresidente uscente di Johnson, uomo della continuità destinato poi a perdere la corsa presidenziale contro il repubblicano Richard Nixon. Folate di caos, disordine sociale e angoscia traversavano il pianeta: pochi giorni prima 200 mila soldati sovietici avevano invaso la Cecoslovacchia (allora come adesso la Russia conduceva il suo virulento gioco espansionistico. Nulla cambia), l’offensiva nord-vietnamita del Tet aveva rivelato l’improntitudine della spedizione americana, il cui prezzo ormai raggiungeva i 20 mila morti, in quella primavera, come in questa, gli studenti occupavano la Columbia University di New York per esprimere dissenso e dolore, mentre gli assassini di Martin Luther King Jr. e Bob Kennedy annichilivano gli ideali dell’America libertaria. Il 3 giugno ’68 perfino Andy Warhol si era preso tre pallottole da Valerie Solanas, un’artista a cui non aveva rivolto sufficiente attenzione, in un’America che continuava risolvere le sue diatribe a colpi d’arma da fuoco, secondo l’idiozia delle saghe western.
Norman Mailer sosteneva che andare in guerra, sparare e uccidere fosse la compensazione finale della nevrosi americana, Joan Didion in “Verso Betlemme” fissava l’istantanea della nazione “appena prima che andasse in frantumi”, perché il 1967 era stato un anno di speranze, un’estate di amore, un momento di emancipazione, un frammento di ottimismo. A Chicago nel ‘68 la Convention democratica incide indelebilmente il tracciato del futuro politico americano. Da allora solo una netta minoranza dell’elettorato bianco voterà i candidati democratici, anche quando, come con Bill Clinton e Barack Obama, la vittoria arriderà loro. Tra i baby boomers ha ormai messo radici il sentimento di perplesso, rabbioso distacco verso la politica tradizionale e costruttiva, che caratterizzerà il nuovo millennio, tra populismi, Neo-Con, Tea Party e Maga.
Oggi lo Smithsonian Institute descrive il 1968 come “l’anno che distrusse l’America”, e in quel momento Donald Trump e Joe Biden sono due volitivi ventenni, all’inizio alle rispettive scalate. In questo lasso di tempo il lavoro d’inquilino della Casa Bianca si è confermato pericolosissimo, con quattro presidenti ammazzati e più di mezza dozzina vittima di attentati su un totale di 46 – non esiste professione con un indice di rischio altrettanto alta. E avvicinandosi all’imminente voto di novembre, sempre più forte è la sensazione che “siamo già stati qui, come se non ce ne fossimo mai andati”, come ha dichiarato nelle scorse ore il terzo candidato presidenziale in corsa, Robert F. Kennedy Jr,, rievocando i giorni dell’omicidio di suo padre. L’America, allorché diviene preda della confusione, spara.
Spara a Sandy Hook, spara a Parkland, spara a Butler, Pennsylvania, per mano di un ragazzino ventenne sull’odiato Donald Trump, perché sparare è un modo acclarato di esprimere scontento. Del resto nell’America d’oggi si fa più tifo a un comizio che a una partita di football, confondendo la partigianeria con la partecipazione, e “divisione” è la parola che corre amaramente sulla bocca di tutti. L’idea di un procedimento di civilizzazione incompleto e troppo spesso affidato ai proiettili è un dato certo, e gli sguardi vuoti rimandati dai teleschermi, l’assenza di fiducia e di speranza, e quei due vecchi candidati, uno con la bocca piena di nomi sbagliati e l’altro con l’orecchio sanguinante, offrono al mondo lo spettacolo di un declino avvenuto. E del grande sconcerto che ad esso è subentrato, con tutto quel potere a disposizione e l’incapacità di capire cosa farne.