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Perché Trump ha scelto J.D. Vance come vicepresidente. Un ritratto
The Donald lo vuole con sè alla Casa Bianca se vincerà le elezioni di novembre. E sarà il suo erede politico. C’è chi lo ritiene un trasformista, ambizioso, capace di reinventarsi più volte nel corso della vita pur di avere successo e visibilità. E c’è chi lo considera un personaggio da non ridurre a semplificazioni
Ci sono due modi per cercare di capire e giudicare J.D. Vance, il giovane senatore dell’Ohio che Donald Trump vuol portare con sé alla Casa Bianca come vicepresidente se vincerà le elezioni di novembre. C’è chi lo ritiene un trasformista, ambizioso, capace di reinventarsi più volte nel corso della vita pur di avere successo e visibilità. E c’è chi lo considera un personaggio complesso, da non ridurre a semplificazioni, disponibile a cambiare sponda per convinzione, non necessariamente solo per dare la caccia al potere. Da quando Vance è diventato una celebrità nel 2016 per il suo best seller “Hillbilly Elegy” (Elegia Americana), è accompagnato da detrattori e fan che dibattono su questa duplice lettura: trasformista o complesso?
Quel che è certo è che a 40 anni ancora non compiuti, J.D. Vance ha l’occasione di entrare alla Casa Bianca e diventare il protagonista del futuro del Partito repubblicano anche nell’era post-trumpiana. Trump non ha scelto solo un candidato vice, ma anche un erede politico. È per questo che vale la pena non ridurre Vance solo alle etichette, che sicuramente gli appartengono e lo accompagneranno nei prossimi quattro mesi di campagna elettorale: populista, avversario della globalizzazione, nemico delle élite (di cui è stato parte), guerriero culturale anti-woke, realista in politica estera con punte di isolazionismo, cattolico conservatore. C’è chi gli attribuisce anche l’etichetta di “filorusso”, ma anche in questo caso occorre non indulgere in semplificazioni.
Sicuramente J.D. Vance è un personaggio con una storia da film. E in quanto tale ricca di complessità. A partire dal nome, che è un’abbreviazione di James David, ma anche di James Donald. La D di Donald ha voluto cambiarla in David, assumendo nello stesso tempo il cognome materno Vance, non appena ha avuto l’età per capire che brutto personaggio fosse suo padre Donald Bowman, che abbandonò moglie e famiglia quando J.D. era un neonato.
Cresciuto a Middletown, in Ohio, con parenti provenienti dal Kentucky, è qui che Vance ha sperimentato la durezza della vita del mondo white trash che avrebbe poi documentato nel suo celebre libro di memorie. Dopo le scuole superiori, anche per lasciarsi alle spalle quella realtà, Vance entrò nel corpo dei Marines, facendo missioni in Iraq negli anni della guerra voluta da George W. Bush.
Rientrato in patria, dopo gli studi in scienze politiche all’Università dell’Ohio si è poi laureato in legge a Yale, cominciando quella che sembrava dovesse essere una carriera da ricco manager nel mondo della finanza. Per alcuni anni l’ambiente di Vance è diventato quello dei venture capitalist della Silicon Valley e la sua vita si è spostata dalla rurale Middletown dei bianchi poveri alla San Francisco dell’innovazione e dei miliardari tech. Qui ha lavorato per Peter Thiel, il controverso fondatore di PayPal e Palantir che viene dipinto spesso da sinistra con le stesse caratteristiche cospiratorie che la destra riserva a George Soros.
Tutto è cambiato per Vance nel 2016 con la pubblicazione di “Hillbilly Elegy”. Il libro fu uno straordinario fenomeno editoriale, perché arrivava nel momento in cui Trump stava per vincere le elezioni e una larga fetta d’America non riusciva a capire il mondo che era entrato in sintonia con lui e il messaggio del Make America Great Again (Maga). Vance divenne una sorta di interprete dell’America trumpiana, che leggeva però in chiave molto critica, cosa che fece di lui un beniamino del mondo progressista e radicale di sinistra. Hollywood contribuì qualche anno dopo, durante la campagna per la rielezione di Trump, trasformando il libro in un film di successo di Ron Howard con Glenn Close e Amy Adams.
Dopo essere stato un ragazzo povero, poi un marine, poi un diplomato in legge in un’università dell’Ivy League, poi un finanziere d’assalto della Silicon Valley e infine uno scrittore, Vance a quel punto decise un’altra delle sue trasformazioni. Da critico di Trump, cominciò ad appassionarsi al personaggio – ha raccontato – quando era caduto in disgrazia e aveva lasciato la Casa Bianca. E cominciò a non soffrire più quelle che riteneva strumentalizzazioni da sinistra del messaggio contenuto nel suo libro.
Nel frattempo erano successe altre cose importanti nella sua vita. Nel 2014 aveva sposato Usha Chilukuri, una figlia di immigrati indiani conosciuta studiando insieme a Yale, dalla quale ha avuto tre figli, Ewan, Vivek e Mirabel. Il loro è stato un matrimonio interreligioso celebrato in Kentucky: Usha è indù, J.D. all’epoca era un cristiano di famiglia protestante in crisi spirituale. Nel 2019 la crisi è sfociata nella conversione di Vance al cattolicesimo.
Qualche settimana fa Vance si è fatto intervistare sul New York Times da un giornalista amico che lo stima, anche se non condivide molte sue posizioni, il columnist conservatore cattolico Ross Douthat. La lunga intervista è un perfetto esempio delle complessità di Vance e affronta, tra le tante cose, gli interrogativi sul suo cambio di giudizio su Trump: opportunismo o reale convinzione?
“Come molti altri conservatori e liberali delle élite – è il racconto di Vance - mi sono permesso di concentrarmi così tanto sull’elemento stilistico di Trump da ignorare completamente il modo in cui sostanzialmente offriva qualcosa di molto diverso sulla politica estera, sul commercio, sull’immigrazione. L’ho incontrato per la prima volta nel 2021. Una delle storie che mi ha raccontato riguardava come alcuni dei nostri generali quando era presidente cambiassero i tempi delle ridistribuzioni delle truppe in Medio Oriente in modo da potergli dire che i livelli delle truppe stavano diminuendo, quando in realtà li modificavano solo nel breve tempo, senza ridurli”.
Vance sostiene di aver capito in quel momento quanta resistenza avesse incontrato Trump da parte del “sistema”. I due hanno cominciato a incontrarsi più spesso e lo scrittore in breve tempo è diventato un acceso sostenitore di Trump e del movimento Maga, che in precedenza aveva deriso e descritto come pericoloso. L’ex presidente lo ha ricambiato appoggiando la sua candidatura come senatore dell’Ohio, che Vance ha centrato nelle elezioni di midterm del 2022.
A quel punto la trasformazione di Vance era completa e Trump ha trovato in lui un sostenitore da usare per combattere le guerre culturali che non scaldano molto l’ex presidente, ma che stanno a cuore a larga parte della sua base. A partire dalla controffensiva contro il cosiddetto “wokismo”, che per qualche tempo ha cercato di intestarsi Ron DeSantis mentre sfidava Trump, ma che Vance ha saputo interpretare meglio, diventando un beniamino del mondo Maga.
“La maggior parte di noi - sostiene – ha una voce in testa che ripete: ‘Non dovresti dire questo, non dovresti dire quello. Forse ci credi, ma dovresti provare a dirlo in modo un po’ più diplomatico’. E nel 2020 quella voce era diventata assolutamente tirannica. Non c'era niente che ti fosse permesso dire. Ogni giudizio era diventato un atto di violenza. Penso che molti di noi abbiano semplicemente detto: ‘Adesso basta. Non stiamo più a questo gioco e ci rifiutiamo di essere controllati in ciò che pensiamo e in ciò che diciamo’”.
Sono tre i fronti che Vance aprirà subito politicamente e che faranno più discutere. Il primo è quello delle tematiche sociali e culturali, prima tra tutte l’aborto, su cui il senatore dell’Ohio ha una posizione pro-life senza compromessi e mezze misure, che provocherà scintille nel dibattito televisivo che farà con Kamala Harris, diventata la portavoce della Casa Bianca nella battaglia per reintrodurre a livello federale il diritto all’interruzione di gravidanza.
Il secondo è quello del suo populismo economico, che andrà a rafforzare i messaggi antiglobalizzazione e isolazionisti di Trump.
“L’ordine globale imposto dall’America si è basato sul lavoro a basso prezzo”, ha detto a Douthat. “La questione commerciale e quella dell’immigrazione sono due facce della stessa medaglia: manodopera più economica all’estero per favorire il commercio, manodopera più economica in patria per favorire l’immigrazione, che esercita una pressione al rialzo su tutta una serie di servizi, dai servizi ospedalieri agli alloggi e così via. La visione populista, almeno per come ce l’ho in testa, è un’inversione: applicare quanta più pressione possibile al rialzo sui salari e quanta più pressione al ribasso sui servizi che le persone utilizzano. Negli ultimi 40 anni abbiamo avuto troppa poca innovazione e troppa sostituzione della manodopera con lavoro a basso costo. Dobbiamo fare di più con la forza lavoro nazionale”.
La posizione di Vance in politica estera, il terzo fronte, è strettamente collegata a quelle sulla globalizzazione e sulla lotta all’immigrazione. E si traduce in un disimpegno e in un approccio America First. Il senatore dell’Ohio appartiene a una generazione di giovani conservatori che prima ancora di essere ostili alle scelte della Casa Bianca di Joe Biden, lo sono a quelle della Casa Bianca di George W. Bush. Il grande nemico per loro è il pensiero neocon e l’idea di portare avanti una politica estera basata su un approccio morale e sull’esportazione della democrazia.
E qui si arriva all’Ucraina, all’Europa, al ruolo della Nato. Le scelte di Biden e dell’Ue, per Vance, sono state “motivate troppo dal moralismo e non abbastanza da un pensiero strategico”. Con la Russia secondo il candidato vicepresidente occorre invece realismo. La sua ricetta per l’Ucraina? Punto primo, “congelare la situazione dove è adesso”. Punto secondo, “garantire l’indipendenza di Kyiv, ma anche la sua neutralità: non voglio essere naif su questo, la Russia ha chiesto un sacco di cose in modo disonesto, ma la neutralità è chiaramente qualcosa che vedono come condizione esistenziale”. Punto terzo, “garantire un qualche tipo di assistenza americana nel lungo termine”. Secondo Vance, “con le nostre capacità non riusciremo a fermare i russi all’infinito. Abbiamo il vantaggio che loro non possono conquistare e tenere tutta l’Ucraina e non possono sostenere questa economia di guerra”.
Per questo, a suo dire, è il momento di un armistizio. E questo sarà un tema caldo nei prossimi mesi di campagna elettorale americana.