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Le ipocrisie del Cremlino dopo gli spari a Trump

Micol Flammini

Il regime russo ha ucciso Nemcov e Navalny, ma condanna la violenza politica americana, parla di sicurezza e dimentica i suoi attentati e gli avvisi dell'intelligence ignorati. Il legame artificiale tra i piani per uccidere Putin e l’attacco al candidato repubblicano

Vladimir Putin vuole sentirsi Donald Trump: martire,  l’uomo che si rialza in piedi con due rivoli di sangue che macchiano il volto e ha la tempra di mostrare il pugno per gridare ripetute volte “lottiamo”.  Vladimir Putin non è Donald Trump, ma con grande rapidità il Cremlino è stato in grado di creare un legame tra l’attentato di Butler contro l’ex presidente americano e i tentativi di Kyiv di eliminare il capo di stato russo. Prima che sabato scorso iniziasse il comizio di Trump in Pennsylvania, era stata pubblicata un’intervista a Kyrylo Budanov, il capo dell’intelligence militare ucraino. Parlando con il sito New Voice, Budanov aveva ammesso che i servizi ucraini hanno pianificato più di un attentato per eliminare per Putin. In un primo momento il Cremlino non sembrava intenzionato a dare molta importanza alla dichiarazione di Budanov, il portavoce Dmitri Peskov ha minimizzato, ha detto che i piani  del “regime di Kyiv” erano “ovvi” e anche “evidenti”, ma la sicurezza attorno al presidente russo funziona bene. L’intervista di Budanov è diventata un po’ più rilevante nel dibattito russo quando la portavoce del ministero degli Esteri Maria Zakharova ha deciso di  dedicare uno dei suoi interventi infuocati ai tentativi di omicidio ai danni di Putin: “Uno dei leader del regime di Kyiv – ha scritto Zakharova su Telegram – ha ammesso apertamente che l’intelligence ucraina stava preparando un attentato … quindi questo tentativo di assassinio è stato preparato, ancora una volta, con i soldi americani”. A Butler era ancora tutto tranquillo mentre Zakharova accusava gli Stati Uniti di aver trasformato l’Ucraina in una “macchina di omicidi, esplosioni, distruzioni, attacchi terroristici contro politici e popolazione civile”. 


L’attentato a Trump è entrato negli sproloqui della portavoce del ministero degli Esteri, e mentre la stampa russa celebrava il martirio dell’ex presidente americano e gli consegnava la vittoria alle prossime presidenziali, Zakharova ne approfittava per aggiornare i suoi commenti e aggiungere che gli Stati Uniti anziché dare denaro a Kyiv “dovrebbero garantire la legge e l’ordine” sul loro territorio. L’irrisione di Zakharova non teneva conto della situazione della sicurezza russa: nel marzo scorso, la Russia ha subìto un attentato da parte dello Stato islamico, sono morte più di centoquaranta persone anche perché nonostante gli avvertimenti dell’intelligence americana, Mosca non ha voluto concentrarsi sulla minaccia jihadista che si è ripresentata in Russia, forse anche perché consapevole che le risorse militari e di intelligence russe sono tutte usate contro l’Ucraina. 


Per la Russia, l’attentato a Trump è stato un altro tassello del mosaico con cui il Cremlino vuole raffigurare gli Stati Uniti: confusi, caotici, stanchi, condannati a farsi governare o da un democratico vecchio e debole (Joe Biden) o da un repubblicano manovrabile (Donald Trump). Putin non ha il potere di determinare il corso degli eventi americani, ma è bravo a sfruttarli per creare divisioni, così,  poco dopo che i colpi erano partiti dal fucile del ventenne Thomas Crooks, il Cremlino ha iniziato a rivoltare l’attentato a suo vantaggio. Mosca ha condannato la violenza politica, senza far riferimento al trattamento che Putin riserva ai suoi oppositori, silenziati, incarcerati, alcuni uccisi, come Boris Nemcov ucciso nel 2015 a pochi passi dal Cremlino o Alexei Navalny morto nel febbraio scorso mentre era detenuto in una colonia penale. Peskov ha definito l’attentato a Trump prevedibile: “Dopo numerosi tentativi di eliminarlo … utilizzando gli strumenti legali, era ovvio  che fosse in pericolo”. Zakharova ha consigliato di fare un inventario delle “politiche di incitamento all’odio contro gli oppositori politici”. Due settimane fa un altro oppositore di Putin, Vladimir Kara-Murza, è stato portato nell’ospedale della colonia penale dove era in regime di isolamento: la pista russa per Butler porta a molte ipocrisie. 
 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)