intervista

Perché Trump non è la salvezza né di Israele né degli ebrei americani

Micol Flammini

Fortemente a favore dello stato ebraico, ma blando nel condannare l'antisemitismo. Quanto è credibile il partito repubblicano di Donald Trump e J.D. Vance

Dopo che la scelta di Donald Trump sul nome del suo candidato alla vicepresidenza era stata svelata,  J.D. Vance avrebbe potuto optare per molti argomenti a cui dedicare le sue dichiarazioni. Ha deciso di parlare di  Israele e ha accusato il presidente Joe Biden di  ritardare l’avvicinamento tra Israele e l’Arabia Saudita e di complicare la lotta contro Hamas. In passato Vance, mentre bloccava assieme ad altri repubblicani il pacchetto di aiuti da 95 miliardi  per l’Ucraina, Israele e Taiwan, era stato molto preciso nel dichiarare che ammirava gli ucraini, ma gli Stati Uniti non avrebbero dovuto confondere le tre battaglie perché Israele  riguarda direttamente gli interessi degli americani. Sembrerebbe la posizione di un sostenitore senza tentennamenti  dello stato ebraico, ma il nitore del suo sostegno cambia quando si parla di lotta contro l’antisemitismo: dalle allusioni al miliardario ebreo George Soros, alla difesa, seppur blanda, dell’adunata neonazista a Charlottesville, in Virginia, in cui venne uccisa una donna, al sostegno esplicito per la deputata della Georgia Marjore Taylor Greene che ha diffuso cospirazioni antisemite e banalizzato l’Olocausto.  Sembra impossibile essere tanto a favore di Israele e non condannare l’antisemitismo, ma secondo lo scrittore israelo-americano Yossi Klein Halevi tutto questo si spiega con il paradosso dei nostri giorni: “Viviamo tempi in cui  parte della sinistra dice di amare gli ebrei ma di detestare Israele e  parte della destra afferma di odiare gli ebrei ma di sostenere Israele”. Accade anche nel Partito repubblicano, in cui c’è una minoranza antisemita  rumorosa che non viene messa da parte e se la destra americana non vede la contraddizione tra il sostenere Israele e lasciare che l’estrema destra con simpatie neonaziste abbia un posto nel Grand old party  è anche una questione di calcolo: “Se il Partito repubblicano sostiene Israele – dice al Foglio Klein Halevi – ora più che mai,  è anche perché lo stato ebraico pensa a se stesso. I repubblicani accusano alcuni alleati di essere troppo dipendenti dagli Stati Uniti per la loro sicurezza, Israele fa esattamente il contrario e questa capacità è dirimente anche per capire le sfumature internazionali  del sostegno repubblicano. Quando Vance definisce Israele un alleato affidabile è questo che intende”. Tra gli ebrei americani ci sono grandi divisioni, molti si  spostando dai democratici ai repubblicani e non senza ripensamenti, perché l’antisemitismo preoccupa tanto a destra quanto a sinistra.

 

Come accaduto in Francia riguardo alla scelta tra il Rassemblement national di Marine Le Pen e la France insoumise di Jean-Luc Mélenchon, gli ebrei cercano il male minore, e molti, disillusi, sanno che i due mali si equiparano. Negli Stati Uniti la minaccia diretta al benessere degli ebrei americani non è Trump, “credo sia ingiusto definirlo antisemita, il rischio è più profondo. Un secondo mandato del candidato repubblicano rischia di essere dirompente per la democrazia e non c’è futuro per gli ebrei americani in una nazione con le istituzioni danneggiate: senza la democrazia, ogni minoranza è a rischio, inclusi gli ebrei”. Trump non sarà il protettore degli ebrei d’America e non è detto che lo sia per Israele. Gli Stati Uniti stanno incrementando la pressione contro Hamas, stanno lasciando che Israele porti avanti la guerra a Gaza senza che i negoziati si fermino, Joe Biden ha fatto molto, mettendo a rischio la sua rielezione, e in un secondo mandato continuerebbe a farlo: “Biden è un buon amico, Trump sarebbe un amico forte, ma molto dipende dal suo rapporto con Benjamin Netanyahu. Biden ha dato il suo sostegno nonostante il suo rapporto con Netanyahu, mentre Trump legge tutto attraverso una chiave personale ed è furioso con il premier  per essersi congratulato con Biden dopo la vittoria del 2020”. Se la relazione tra Bibi e Trump è stata un vantaggio in passato, adesso potrebbe complicare le cose. 


Il 23 luglio il premier israeliano andrà negli Stati Uniti, terrà un discorso al Congresso, non ha mai nascosto il suo sostegno a Trump, ma Israele spera che durante la sua visita riesca a tenersi equidistante tra i due candidati alla Casa Bianca. E non è detto che l’equidistanza non indispettisca ancora di più il repubblicano. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)