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Voglio che si sappia come vivono i poveri. Il memoir-manifesto di Vance

Stefano Pistolini

Il giovane Vance è diventato il guru dell’emergente linea populista-intellettuale etichettata come conservatorismo nazionalista – cattolica, decisamente anti woke, costantemente in guardia verso le corporation, protezionista del commercio e dei confini e infatuato di Viktor Orbán

Dedica: “A Nonna e Nonno, che mi hanno fatto diventare un vero hillbilly”. Lo svolgimento coreografico della candidatura presidenziale di Donald Trump, per sbaragliare definitivamente i balbettii di Joe Biden, transita per la scelta del giovane J.D. Vance come vice del ticket. Il senso e il valore di questo personaggio, sbattuto in prima pagina su tutti i giornali del mondo, sta già tutto in quello che è stato finora il suo prodotto più pregevole e quello che gli ha garantito il primo barlume di popolarità: la saga autobiografica del 2016 “Elegia americana” (Garzanti), cronaca familiare che nel titolo originale ha una parolina in più, “Hillbilly Elegy” che all’orecchio americano risuona chiarissimo, perché indica che si parla di “mostruosa povertà”, come scrive Vance, della parte più disgraziata della nazione, gli ultimi con la pelle bianca, quelli più imbarazzanti da collocare nel ritratto sociale – ma pur sempre dei preziosi aventi diritto al voto.

La genialità della scelta del team Trump in favore di Vance sta nel congiungere due opposti che in passato hanno tracciato traiettorie lontane sotto le medesime insegne del nazionalismo: un avventuriero del capitalismo d’assalto come l’ex presidente e un campione dei diseredati come Vance. Una formula che traduce la propria contraddizione in un abbraccio per tutti gli americani che ancora ci tengono a essere tali e che renderanno, come da slogan, l’America di nuovo grande. “Non sono un senatore, un governatore o un ex sottosegretario. Non ho avviato un’azienda miliardaria. Sono nato in una famiglia povera della Rust Belt, in una cittadina dell’Ohio venuta su intorno a un’acciaieria, che non ha fatto altro che perdere posti di lavoro e speranze”, si presenta Vance nel suo memoir, che è un atto d’accusa contro le forze economiche che hanno depauperato la base industriale della sua città generando tremendi effetti collaterali come il diffondersi delle droghe pesanti, che si sono impossessate anche di sua madre, vera protagonista del suo libro, un’ex infermiera che ha iniziato a rubare narcotici e a sballarsi. 

Vance è diventato il guru dell’emergente linea populista-intellettuale etichettata come conservatorismo nazionalista – cattolica, decisamente anti woke, costantemente in guardia verso le corporation, protezionista del commercio e dei confini e infatuato di Viktor Orbán. Ma il cavallo di battaglia continua coerentemente a essere sempre lo stesso, perché è là che la sua figura si definisce: “Voglio che si sappia come vivono i poveri e qual è l’impatto psicologico che produce la povertà spirituale e materiale sui loro figli. Voglio che si capisca cos’ha rappresentato il sogno americano per me e la mia famiglia. Voglio che si capisca in cosa consiste realmente l’ascensore sociale”, scrive nel best seller che l’ha fatto conoscere agli americani e che nel 2020 ha spinto Ron Howard a ricavarne un film (su Netflix) con Amy Adams e Glenn Close nella parte della madre, nel quale però l’intenzione di denuncia politica di Vance vira verso la drammaturgia di caratteri. “I miei familiari, che vengono dalle colline del Kentucky orientale, si autodefiniscono hillbilly”, scrive Vance. “E’ stato lo spostamento dei Grandi Appalachi dal Partito democratico al Partito repubblicano a ridefinire gli assetti politici dell’America dopo Nixon. Ed è nei Grandi Appalachi che le fortune dei bianchi della classe operaia sembrano in declino. Dalla bassa mobilità sociale alla povertà, dalla diffusione dei divorzi alla droga endemica, la mia patria è un luogo di infelicità”. Povertà e le sue tragiche conseguenze: debiti, alcolismo, violenza e abuso di sostanze, “il modo più facile per allontanare il dolore”. Vance si trasforma in personaggio pubblico proprio a partire dal suo identikit: “Sì, sono bianco, ma non mi identifico nei wasp, i bianchi anglosassoni e protestanti del nord-est”, scrive nell’intro di “Elegia Americana”: “Mi identifico invece con i milioni di proletari bianchi di origine irlandese e scozzese che non sono andati all’università. Per questa gente, la povertà è una tradizione di famiglia”. Il proletariato e il sottoproletariato bianco che le mutazioni socioeconomiche hanno lasciato sbigottiti e alla deriva: mandare Vance alla Casa Bianca alle spalle di Donald Trump equivale a riaccendere una speranza – e in quanto tale, a questo punto della campagna, è una splendida mossa.

“I proletari bianchi sono il gruppo sociale più pessimista d’America. Siamo socialmente più isolati che mai, e trasmettiamo questo isolamento ai figli. Molti di noi sono stati espulsi dalla forza lavoro o hanno deciso di non trasferirsi altrove per cercare nuove opportunità”, recita il suo libro-manifesto. Pochi tra coloro che decideranno di andare a votare sospinti dalla presenza di questa figura nel ticket repubblicano, si faranno impressionare dalla notizia che il suo pigmalione è Peter Thiel, eminenza grigia del conservatorismo nazionalista, ma a sua volta miliardario capitalista, arricchitosi nella bolla digitale. Sistemando al suo fianco il rampante Vance, Trump alza il livello dello scontro sociale, recupera una sacca di elettori dimenticati e acuisce la frizione razziale. Strategie di spietata funzionalità, alle quali dall’altra parte della barricata si oppone solo un nervoso appello di resistenza (Vance: “L’unico motivo per cui mi sono fatto crescere la barba è perché Trump ha detto che senza sembro frocio” – tanto per esemplificare l’aria che tira). 

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