Nell'Indo-Pacifico

Trump sta scaricando (pure) Taiwan?

Crollo in Borsa delle aziende di chip. I rischi del "paghino di più"

Giulia Pompili

Non solo l’Ucraina. Il Trump 2.0 rischia di cambiare i fondamentali della sicurezza internazionale. Dalla prima telefonata da presidente eletto con l'allora presidente taiwanese Tsai Ing-wen all'improvviso risentimento per i chip

Fino a qualche giorno fa sembrava l’Ucraina la prima e principale vittima dell’incertezza di una nuova presidenza americana a guida Donald Trump. Ieri, però, anche a Taipei hanno capito che niente è così scontato nemmeno per Taiwan, l’isola democratica che la Repubblica popolare cinese rivendica come proprio territorio pur non avendola mai governata. La crisi di panico è arrivata dopo un’intervista che Trump ha rilasciato a Bloomberg Businessweek, fatta più per propaganda interna che come reale messaggio strategico, in cui l’ex presidente e candidato repubblicano sostiene quello che ha sempre detto anche nella precedente campagna elettorale, e cioè che l’America non è tenuta a spendere così tanto per la difesa altrui: “Non credo che siamo diversi da una polizza assicurativa”, ha detto.

 

Al giornalista di Bloomberg che lo incalzava sull’impegno americano nel difendere l’isola democratica da una potenziale aggressione militare della Repubblica popolare, Trump ha risposto “tiepidamente”, affermando che “Taiwan è a 9.500 miglia di distanza” dall’America, e a sole “68 miglia dalla Cina” (il presidente americano Joe Biden diverse volte ha detto esplicitamente che l’America è pronta a intervenire, violando il fondamentale concetto di “ambiguità strategica” sulla questione). Non solo: Trump ha esplicitato una specie di risentimento nei confronti di Taiwan, che sarebbe diventata “immensamente ricca portandoci via il business dei chip” – una falsità, dato che lo sviluppo taiwanese della produzione dei microchip è stato per anni studiato dagli economisti e considerato uno dei più grandi successi della politica industriale globale. Eppure, dopo quelle parole, l’altro ieri i titoli di chip e microchip sono crollati un po’ ovunque: tra le americane, il colosso Nvidia ha perso il 6,6 per cento, la multinazionale Amd il 10,2 per cento e il gigante olandese Asml -11 per cento. Poi ieri tutto è tornato alla normalità, e il produttore di chip più grande e importante al mondo,  il taiwanese Tsmc, ha pubblicato i risultati del secondo trimestre che sono andati ben oltre le aspettative. Ma il messaggio di incertezza – almeno fino alle elezioni americane di novembre – è arrivato chiaro anche alla politica taiwanese, in uno dei suoi momenti più difficili. Pechino considera un pericolo la presidenza taiwanese del progressista Lai Ching-te, iniziata da meno di due mesi, e ha raddoppiato la pressione sull’isola a diversi livelli, anche militari. Ieri a Taipei l’ordine era quello di non commentare le parole di Trump (l’hanno fatto solo i nazionalisti del Kuomintang) e a parlare ufficialmente è stato solo il premier Cho Jung-tai, che ha risposto: i rapporti con Washington sono ottimi, e stiamo spendendo sempre di più per la nostra Difesa. 

 


Il commento di Trump su Taiwan è stato pubblicato a poche ore dalla conferma del suo candidato vice, J.D. Vance, considerato un falco anticinese, e non è stato apprezzato da parte del Partito repubblicano. Il pericolo è che la protezione dell’autonomia e della  indipendenza de facto di Taiwan siano meno sicure. “Non solo la retorica di Trump su Taiwan è cambiata, ma pure tutto il suo personale, specialmente quello della politica estera, non è più lo stesso”, ha detto ieri al Nikkei Lev Nachman, docente di Scienze politiche alla National Taiwan University. In una sua eventuale nuova Amministrazione non ci sarà l’ex segretario di stato di Trump Mike Pompeo, grande sostenitore di Taiwan, e soprattutto il viceconsigliere per la Sicurezza nazionale Matt Pottinger, considerato uno degli americani più esperti di Cina. La posizione di Pottinger è chiara da tempo: ha appena pubblicato il volume “The Boiling Moat: Urgent Steps to Defend Taiwan”, nel quale sostiene che la vera lezione della guerra della Russia contro l’Ucraina è che “la deterrenza è decisamente più economica della guerra”,  e  il mese scorso, in un saggio pubblicato da Foreign Affairs e firmato insieme con Mike Gallagher (un trumpiano a metà, che si è dimesso dal Congresso ad aprile dopo aver votato contro l’impeachment mosso dai repubblicani contro il segretario della Sicurezza interna Alejandro Mayorkas)  Pottinger ha lodato la politica estera di Biden con la Cina, che ha rafforzato le alleanze dell’America con i paesi più importanti dell’Indo-Pacifico reiterando il sostegno a Taipei.

 

 

Durante la prima Amministrazione Trump, il problema delle spese per la “difesa americana”, che Trump voleva aumentare esponenzialmente, è stato uno dei motivi di frizione con il Giappone, alleato storico e strategico di Washington, ed è il motivo per cui nei corridoi dei palazzi del potere di Seul si parla sempre più spesso ed esplicitamente di dotare la Corea del sud di armi nucleari proprie, senza aspettare che l’ombrello nucleare passi dall’America. Ieri Ursula von der Leyen, prima di essere rieletta presidente della Commissione europea, nel suo discorso programmatico ha detto che lavorerà per “dissuadere la Cina” dall’invadere Taiwan.  

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.