Vance e la scelta di una politica estera “ripiegata” e jacksoniana

Gianluca Pastori

La scelta del senatore dell'Ohio come vicepresidente segna il ritorno a un'America first solida, focalizzata sul contenimento della Cina e sulla riduzione dell'impegno americano in Europa. Gli alleati dovranno adattarsi

Con la scelta di J.D. Vance come candidato alla vicepresidenza, dalla convention repubblicana di Milwaukee giunge chiaro il segnale di un ritorno degli Stati Uniti alla politica estera “ripiegata” che ha segnato i quattro anni della (prima?) presidenza Trump. Una politica estera che – dopo il voto di novembre – potrebbe beneficiare di una maggiore coerenza interna del ticket presidente/vicepresidente e della maggiore solidità ideologica che Vance sembra destinato a portare rispetto al più erratico Trump. A differenza di Mike Pence, ancora legato alla vecchia ortodossia reaganiana, l’approccio America first di Vance appare molto più solido e la sintonia con la visione di The Donald in tema di affari internazionali più profonda.

 
Sul piano concreto, Vance è un fautore del contenimento della Cina; contenimento che dovrebbe diventare la priorità strategica di Washington anche al fine di proteggere l’economia e il mercato statunitensi dalla sfida di Pechino. Questa politica rende necessaria una riduzione dell’impegno Usa in Europa (dove gli alleati dovrebbero essere chiamati ad aumentare in modo significativo il loro contributo alla produzione di sicurezza) e una rapida composizione della questione ucraina, così da riportare il teatro dell’Asia-Pacifico al centro dell’attenzione della Casa Bianca e da concentrarsi sulla ricostruzione delle capacità militari del paese, ritenute non sufficienti a sostenere i possibili impegni derivanti dall’attuale scenario internazionale.

   
Questa linea politica – più “ripiegata” che isolazionista in senso stretto – contrasta sia con l’internazionalismo liberale del mainstream democratico, sia con l’interventismo muscolare dei falchi repubblicani à la Mike Pompeo, che a margine della convention hanno espresso il loro timore per la scelta di Vance come running mate. Di contro, essa rispecchia un atteggiamento in senso lato “populista” che, da qualche anno a questa parte, sembra raccogliere un consenso trasversale ai due partiti maggiori e sta contribuendo a riorientarne le scelte politiche. La riscoperta della dimensione comunitaria, la critica al mondo della finanza e del big business e il ritorno ai temi e ai valori dell’identità americana sono altri aspetti di questo processo.

 
Al di là dell’interpretazione che ne possono dare oggi i candidati repubblicani, il ritorno a una tradizione che Walter Russell Mead definirebbe “jacksoniana” appare, quindi, un tratto centrale dell’attuale politica americana. Un tratto al quale non sfugge nemmeno il Partito democratico né – per certi aspetti – l’amministrazione Biden, che pure, già dalla campagna elettorale del 2020, ha messo la difesa e il rilancio del multilateralismo e del liberal word order wilsoniano al centro della sua narrazione pubblica. Un tratto, infine, con cui il mondo dovrà imparare a fare i conti, indipendentemente da quello che sarà il risultato delle elezioni di novembre e dal fatto che, nei prossimi anni, J.D. Vance si confermi o meno l’erede politico di Donald Trump.

  
Per gli alleati di Washington, in Europa e fuori, è una svolta importante. Anche con l’atlantista Biden alla Casa Bianca c’è voluta l’invasione dell’Ucraina per ricompattare (anche se non senza distinguo) un fronte occidentale attraversato da numerose fragilità. In questa prospettiva, il messaggio che la scelta di Vance ribadisce è che il ruolo internazionale degli Stati Uniti non può più essere “taken for granted”. Soprattutto se – come sembrerebbe dai nomi che circolano per alcune posizioni chiave di una possibile amministrazione repubblicana – quest’ultima dovesse rispecchiare gli sviluppi che ci sono stati all’interno del Partito ed esprimere un carattere più chiaramente e compattamente MAGA rispetto a quella che si è insediata nel 2017.

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