In America
I democratici, l'exit strategy di Biden e la trappola della rassegnazione
Ogni giorno un'indiscrezione e una smentita, ma la pressione sul presidente americano è poco governabile. I numeri di Kamala Harris, il ticket possibile e un piano prima di tutto per tornare a credere che battere Trump è almeno pensabile
La pressione dei democratici su Joe Biden affinché faccia un passo indietro e non si ricandidi alla Casa Bianca alle elezioni di novembre è ogni giorno uguale e ogni giorno peggiore. Ieri per esempio l’Nbc ha detto che il presidente sta lavorando a una sua exit strategy, cioè si è convinto a non proseguire con la campagna elettorale per la rielezione – fonte: Partito democratico. Poco dopo, il portavoce della Casa Bianca Andrew Bates ha scritto su X: non è vero, “abbiate fede”, e Biden ha detto che la settimana prossima ricomincerà il tour elettorale dopo l’isolamento per il Covid. Il giorno prima era accaduta la stessa cosa, l’indiscrezione era del sito Axios e la smentita era di un manager della campagna per la rielezione, ma la sostanza è uguale.
Andando a ritroso fino alla notte del 27 giugno – cioè dopo il dibattito tv tra Biden e Donald Trump – si ritrova sempre lo stesso schema: i democratici fanno pressione, il presidente dice che continua. Ogni giorno uguale e ogni giorno peggio, perché sono passate tre settimane, perché i democratici che si sono schierati contro Biden sono diventati sempre di più e sempre più influenti, perché i sondaggi sono andati peggiorando, i fondi elettorali sono andati diminuendo, gli editoriali a favore del ritiro in stile lo-dico-da-amico-e-da-ammiratore si sono moltiplicati, le argomentazioni di Biden sono diventate il capriccio testardo di un vecchietto.
Il presidente insomma è un irresponsabile perché mette a repentaglio la possibilità dei democratici di rivincere le elezioni, di mantenere il controllo del Senato e di tentare di riconquistare la maggioranza alla Camera: Biden viene paragonato al giudice della Corte suprema Ruth Bader Ginsburg, che anziana e malata non si dimise nonostante molti glielo chiedessero e poi morì nel settembre del 2020, a due mesi dalle presidenziali, e Trump non usò la cortesia di aspettare l’esito del voto per fare una nomina a vita e oggi la Corte suprema ha una maggioranza schiacciante di giudici conservatori che, per dirla con un eufemismo, non pensano che Trump costituisca un pericolo per la struttura democratica americana. Di più. Biden viene paragonato pure allo stesso Trump: stessa tigna a non voler ammettere l’evidenza, stessa irresponsabilità (nella furia, devono essersi persi il discorso dell’ex presidente alla convention di Milwaukee, annunciato come un’offerta di unità e di calma e invece incendiario e menzognero come pochi altri).
L’exit strategy insomma è già stata decisa, i democratici si sono soltanto dimenticati di tutelare, almeno, la dignità del loro presidente, e se non lo fanno loro non si capisce perché dovrebbero farlo i trumpiani, o gli elettori. Da qui riparte la seconda fase, cioè la sostituzione: Kamala Harris, la vicepresidente, è l’erede naturale e il suo team, pur smentendo ogni piano, sta già organizzando la costruzione della sua storia elettorale. Buona parte del partito non si trova d’accordo, vorrebbe un candidato considerato più forte, e intanto si cerca almeno un ticket che abbia un potenziale negli stati da vincere, ed è anche per questo che si parla con insistenza del governatore della Pennsylvania, Josh Shapiro. Al fondo di questa strategia invero brutale, c’è una specie di rassegnazione dei democratici: è tutto comunque inutile. David Frum, che è un conservatore non trumpiano, sull’Atlantic scrive: basta con il piagnisteo, Trump è battibile, bisogna però crederci, e fidarsi di chi ci sarà a sfidarlo, invece che continuare ad azzannarsi da soli.