in russia

Le tappe del processo farsa a Evan Gershkovich

Micol Flammini

I tempi brevi per uno scambio di prigionieri rapido, le parole del giudice e una condanna a sedici anni in colonia penale attesa e osservata da dietro la gabbia degli imputati

Mentre Evan Gershkovich si trovava in piedi nella gabbia di vetro degli imputati del regime russo, il giudice del tribunale regionale di Sverdlovsk lo ha condannato  a sedici anni  per spionaggio da trascorrere in una colonia penale. Il giornalista del Wall Street Journal è rimasto in piedi, fermo, impassibile, e il giudice stralunato dalla mancanza di reazione gli ha domandato: “Gershkovich, ha capito la sentenza?”. Evan l’ha capita, parla russo sin da bambino: ha guardato il giudice e ha annuito, la sua voce da dietro al vetro non si sarebbe sentita, usarla sarebbe stato inutile.  Il massimo della pena per spionaggio sono vent’anni, era scontato che per rendere la giustizia russa verosimile la condanna sarebbe stata di qualche anno in meno, da scontare non in carcere, ma nelle colonie in cui sono rinchiusi coloro che il presidente russo, Vladimir Putin, vede come suoi nemici personali: gli oppositori. Il processo a Gershkovich, arrestato nel marzo del 2023 con l’accusa di spionaggio  per conto dell’intelligence americana, è una farsa che il regime russo non ha neppure cercato di coprire di serietà: il giornalista è stato arrestato mentre seguiva il reclutamento dei mercenari della Wagner, il Cremlino  ha sostenuto di averlo colto in flagranza di reato, ma le prove non sono state mostrate.

 

Il processo è stato a porte chiuse, i sorrisi di Gershkovich delle prime udienze si sono trasformati in un’espressione sfinita: conosceva il finale, le farse putiniane si somigliano tutte, anche se questa è stata rapida e indica che Mosca ha voglia di uno scambio di prigionieri a breve. Il portavoce del Cremlino, lo stesso Dmitri Peskov che  aveva parlato di prove schiaccianti contro Gershkovich, alla domanda se ci sarà uno scambio,  ieri ha risposto: “E’ spionaggio, un’area molto, molto sensibile”. Sono due gli americani condannati per spionaggio che si trovano nelle carceri russe: il giornalista e l’ex marine Paul Whelan, arrestato nel 2019, quando  il Cremlino aveva già iniziato a costruire la sua banca di ostaggi da scambiare con prigionieri utili  nelle carceri europee e americane, come Vadim Krasikov, arrestato a Berlino per aver commesso un omicidio per conto dei servizi russi. La condanna in una colonia penale serve ad alzare il prezzo della liberazione di Evan, che  ha osservato i suoi processi dalla gabbia di vetro degli imputati. Il Cremlino costruisce ogni farsa in modo che si veda la sua natura farsesca, dalla gabbia  lascia guardare, lascia assistere, ma da dietro al vetro non si può cambiare nulla, neppure se urli si sente: osservi e sei muto. Dopo la sentenza qualcuno tra i giornalisti internazionali presenti per ascoltare il verdetto ha gridato a Evan: “Ti amiamo”. Il giornalista ha salutato, è uscito, ha offerto le sue mani alle manette, è scomparso.
 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)