verso la Convention di Chicago
Ora ai Democratici resta solo Michelle Obama per battere Trump
Il sentore, nel caso della candidatura di Kamala Harris, è quello di un film di serie B. L’ex First Lady, baciata da una presenza giovane e grintosa, può unificare e far sognare. Con lei in corsa cambierebbe tutto
Quando ha cominciato, Trump era una specie di banalissimo Briatore televisivo o il suo modello, il che è lo stesso. Non aveva esperienza politica. La Casa Bianca l’aveva vista solo in cartolina. Il suo ego esplose perché Barak Obama lo prese in giro senza indulgenza, mentre la sua “impollinazione culturale” dell’America woke (citazione da Franzen) aveva in realtà spianato la strada del tribalismo antielitario del superdemagogo. Prese tre milioni di voti meno di Hillary Clinton, candidata sbagliata per vari motivi, e vinse nel collegio elettorale la presidenza, che condusse con qualche intuizione, qualche decisione giusta e molta erratica tendenza all’autoritarismo e alla violazione delle regole costituzionali fondamentali. Oggi dopo il rovinoso confronto con il vecchio meraviglioso Joe Biden, è rientrato al centro dello star system, dalla Pennsylvania dove un disgraziato cretino ha cercato di ammazzarlo, a Milwaukee, dove è stato incoronato come un unto del Signore.
Cerca una scuola di ideologia e politica con J. D. Vance, Peter Thiel, quel losco visionario di Elon Musk, e una serie di intellettuali un poco abborracciata nell’accozzaglia della destra cosiddetta alternativa, i neo neoconservative, ma è un fenomeno di demagogia mediatica e di narcisismo patologico e non sarà mai nient’altro che quello, sebbene ne abbia azzeccate alcune prima di rivelarsi una mostruosità illiberale e antidemocratica con l’insubordinazione del 6 gennaio che dovrebbe costargli l’esclusione dalla corsa e la galera.
Kamala Harris è la vice di Joe, donna e di colore, nessuno può scalzarla nel caso di una rinuncia alla candidatura di un acciaccatissimo Biden. Nessuno tranne una. Il sentore però è nel suo caso quello di un film di serie B, di una dimensione mediatica difficile da ricostruire dopo una lunga stagione di impopolarità personale. Insisto. Se la Convention di Chicago applaudisse Michelle Obama candidata, cambierebbe tutto. La Casa Bianca è stata la sua residenza per otto anni. Ha al suo fianco un presidente emerito e l’intero staff dei successi della presidenza Biden, ma è autonoma dal letteralismo rispettoso e obbligato degli ultimi quattro anni. Può unificare e fare sognare, due caratteristiche decisive delle presidenziali americane che ora sono nelle mani del circolo dei trumpiani. E’ baciata da una presenza giovane e grintosa, che farebbe subito sfigurare come un maschietto tossico il suo rivale. Il programma c’è. Uomini e donne per realizzarlo pure. Mancano lo slancio e la serietà di un Partito democratico impegnato seriamente a vincere e non a discutere en coulisses della salute del candidato.
Quello slancio e quella serietà sono nella natura e nell’immagine della ex First Lady, nella sua grinta feroce, nella sua dolcezza di madre, nella sua esperienza del popolo americano, minoranze disperse comprese, nell’odio che suscita in ogni ambiente della destra internazionale, e l’odio dell’avversario è un serbatoio di carburante immenso. Dovrebbe diventare la candidata di tutti e i sondaggi dicono che trionferebbe su The Donald, battendolo anche sul suo stesso piano. Non vuole? Può darsi, ma sarebbe tragico un rigetto del destino politico da parte di una donna coraggiosa e ambiziosa. A pirata pirata e mezzo.