il ritratto

Come è cresciuta Kamala a fianco di Biden

Harris è stata forgiata dal lavoro dietro le quinte in questi anni e anche dalle lezioni imparate per alcuni fallimenti: dagli scarsi risultati nella lotta all’immigrazione alle rivolte interne al suo litigioso staff

Essere la vicepresidente degli Stati Uniti è uno dei lavori più ingrati che esistano. La numero due della Casa Bianca per la Costituzione non deve fare molto di più che stare in panchina in attesa, nel caso succeda qualcosa al numero uno. “Nel dire che c’è poco da dire sui compiti del vicepresidente, si è già detto tutto quel che c’è da dire”, affermava con un gioco di parole un secolo fa il presidente Woodrow Wilson. 

 

Ma quando all’improvviso il vice deve scendere in campo, ecco che si ritrova dalla penombra ai riflettori puntati, con tutti i poteri e i pesi del caso. Lo scoprirono personaggi come Harry Truman quando fu avvertito della morte del suo capo Franklin D. Roosevelt; Lyndon B. Johnson mentre giurava sull’aereo che riportava da Dallas il cadavere di Jfk; o Gerald Ford quando prese il posto del dimissionario Richard Nixon. Ma a nessuno finora è toccato quello che adesso attende Kamala Harris, cioè passare da un mestiere ingrato a un compito altrettanto ingrato: sostituire non il presidente, bensì il “candidato” presidente a soli tre mesi e mezzo dal voto. 

La vicepresidenza non ha aiutato l’immagine della Harris, oggi poco stimata anche dagli elettori, ma potrebbe rivelarsi una sorpresa per l’America scoprire quanto l’abbia fatta crescere come statura politica. Perché è vero che la numero due ha pochi compiti ufficiali alla Casa Bianca, però è sempre al centro dell’azione in uno dei luoghi più importanti del mondo. Da tre anni e mezzo Kamala Harris lavora al fianco di Joe Biden su tutti i dossier planetari più delicati, dalla guerra in Ucraina a quella a Gaza, dal contenimento della Cina alla regolamentazione dell’intelligenza artificiale. Se la convention dei democratici ad agosto accoglierà l’invito di Biden a incoronarla come candidata, la campagna elettorale che si troverà a fare  sarà profondamente diversa da quella, poco incisiva, che aveva messo in campo nel 2019, quando da senatrice si era candidata alla presidenza degli Stati Uniti. 

 

C’è una nuova Harris che il mondo – a partire da Donald Trump – si troverà a scoprire e conoscere a fondo nei prossimi mesi. E’ stata forgiata dal lavoro dietro le quinte in questi anni e anche dalle lezioni imparate per alcuni fallimenti che hanno segnato la sua esperienza alla Casa Bianca: dagli scarsi risultati nella lotta all’immigrazione che le aveva affidato Biden, alle rivolte interne al suo litigioso staff. Per cercare di capire quali caratteristiche aspettarci dalla probabile nuova portabandiera del Partito democratico, conviene ripercorrere il tragitto che l’ha portata da San Francisco alle battaglie politiche di Washington. 

Kamala Devi Harris è figlia della Bay Area californiana, di quel mondo del pensiero libero e dell’innovazione che va dall’Università di Berkeley a Oakland e San Francisco e giù fino alla Silicon Valley e all’Università di Stanford. Nel mezzo c’è l’enorme baia che nei primi anni Sessanta separava una biologa indiana tamil di Berkeley e uno studente giamaicano impegnato in un dottorato in economia a Stanford. 

Shyamala Gopalan, la madre di Kamala, aveva lasciato l’India a 19 anni nel 1958 per proseguire negli Stati Uniti gli studi e impegnarsi nella ricerca genetica. Donald J. Harris, il padre, era all’inizio di una brillante carriera da economista post-keynesiano, che lo avrebbe portato a insegnare in svariate università del mondo e a fare da consulente a governi e organizzazioni internazionali. Si conobbero all’Afro-American Association di Berkeley, dove nacque anche il movimento delle Pantere Nere e dove Shyamala si sentiva a casa per il colore scuro della propria pelle. Anche se, da indiana, aveva molti interrogativi identitari sull’appartenenza ai vari gruppi della tumultuosa Black America degli anni Sessanta. Saranno gli stessi interrogativi che accompagneranno l’adolescenza e la prima età adulta di Kamala e della sorella minore Maya, che si definiscono oggi sia African-American che Asian-American. E non sono domande molto lontane da quelle che negli stessi anni si faceva un loro coetaneo nero che cresceva tra l’Indonesia e le Hawaii, con una mamma bianca del Kansas e un padre kenyota assente: Barack Obama. 

Con Obama, Kamala e Maya condividono anche l’esperienza di essere state cresciute da mamme single. Shyamala e Donald si sposarono nel 1963, Kamala è nata l’anno dopo a Oakland, ma un primo trasferimento della famiglia in Illinois per seguire gli incarichi accademici del padre mise in crisi il matrimonio. Quando la famiglia tornò a Berkeley nel 1970, era composta solo da madre e due figlie, con il padre che abitava invece nella bianca Palo Alto vicino al campus di Stanford, dove Kamala e Maya si sentivano sempre a disagio quando andavano a trovarlo ed erano le uniche bambine nere. 

La futura vicepresidente degli Stati Uniti è stata, a Berkeley, una delle prime studentesse elementari nere coinvolte nel controverso programma di desegregazione del “busing”, cioè del trasporto via bus degli studenti dalle zone a prevalenza afroamericana a scuole di bianchi, per favorire l’integrazione. E’ stato un momento formativo, a suo dire, che ha influenzato le sue battaglie sui diritti civili. Fu anche il tema su cui nei dibattiti per le primarie dei democratici del 2019 Kamala Harris aggredì verbalmente l’allora avversario Joe Biden, accusandolo mentre discutevano del “busing” di essere stato politicamente vicino ai razzisti del partito. Fu l’attacco più duro che Biden subì nelle primarie, prima di scontrarsi con Donald Trump nelle elezioni generali, ma fu anche uno dei motivi che lo spinse a scegliere la Harris come candidata vice. 

Se gli anni delle elementari Kamala Harris li trascorre a Berkeley, quelli delle medie e delle superiori invece la vedono in un ambiente completamente diverso, a Montreal in Canada, dove la madre era stata assunta alla McGill University. E’ il momento “francofono” della formazione della Harris, ma è anche il momento della scoperta della vocazione per la giustizia. La sua migliore amica le confidò in quegli anni di essere vittima di molestie sessuali da parte del patrigno e Kamala con la madre la convinsero a denunciarlo e la presero a vivere con loro. Nelle interviste degli anni a venire, la Harris ha attribuito a questa vicenda l’inizio del cammino che la porterà a studiare legge e diventare una procuratrice.

Dopo l’università alla Howard, il college storico dei neri a Washington e la facoltà di legge all’Hastings College in California, Kamala Harris cominciò negli anni Novanta una carriera che per più di 25 anni la vide al centro dell’attività politica e giudiziaria di San Francisco. Cioè immersa in un microcosmo profondamente democratico e dove i democratici si alleano e si sfidano tra loro per tutte le cariche elettive – comprese quelle dell’amministrazione giudiziaria – nella quasi totale assenza di controparti repubblicane. Un mondo che a cavallo tra la fine del secolo scorso e quello attuale era dominato da due potenti donne del partito: la futura speaker della Camera Nancy Pelosi e la senatrice Dianne Feinstein. 

L’uomo forte che gestiva il territorio per conto delle due leader era Willie Brown, prima leader dell’Assemblea della California e poi sindaco di San Francisco. E Brown prese sotto la propria ala e fece crescere insieme, politicamente, due eredi: una è la Harris, l’altro è Gavin Newsom, governatore della California ed ex sindaco di San Francisco, indicato da più parti come la possibile alternativa a Biden (e alla Harris) nella corsa contro Trump. E’ singolare che in quegli anni si muovesse a San Francisco anche un’altra donna potente, Kimberly Guilfoyle, che nei giorni scorsi abbiamo visto sempre a fianco di Donald Trump durante la convention repubblicana, come fidanzata del figlio Don Jr: nei primi anni Duemila era invece la moglie di Newsom e la first lady della San Francisco democratica. 

Appoggiata da Brown, Kamala Harris scalò le cariche elettive della giustizia: procuratrice distrettuale della contea di Alameda, poi capo della procura di San Francisco e infine Attorney General di tutta la California. Le malelingue – e Trump su questo ci navigherà, se dovrà sfidarla – hanno attribuito parte del suo successo al fatto che negli anni Novanta Kamala era legata sentimentalmente a Brown, di trent’anni più anziano di lei. 

Il quarto di secolo alla guida della giustizia californiana è stato quello che ha modellato le idee e lo stile della Harris. Politicamente, l’ha resa realista e poco incline alle posizioni nettamente ideologiche, spesso in contrapposizione con alcune aree del suo stesso partito. L’ala più radicale, per esempio, le rimprovera di aver appoggiato da procuratrice una linea troppo dura sulla criminalità. Nello stesso tempo, però, si scontrò duramente con la Feinstein sulla pena di morte, a cui Harris si oppone da sempre e che non ha mai voluto applicare nonostante sia prevista dalle leggi della California. 

“Nessuna buona proposta politica termina con un punto esclamativo”, è una delle frasi preferite di Kamala Harris, che anche in questo caso si mette in netta contrapposizione con Trump, il candidato dei punti esclamativi, dei superlativi e delle lettere tutte maiuscole. I diritti civili, la tutela delle donne e i temi legati all’immigrazione sono stati al centro dell’attività della Harris da procuratrice in California. Ma anche la sicurezza, la sfida al mondo tech della Silicon Valley sui temi della privacy e della protezione dei dati, e una lunga serie di cause che hanno fatto di lei una bestia nera del mondo dell’energia fossile: Exxon, Chevron, Bp, ConocoPhillips e molte altre aziende del mondo petrolifero sono state portate sul banco degli imputati dalla procuratrice Harris. 

Mentre scalava la politica californiana, la sua vita privata è rimasta a lungo quella di una single senza figli, molto legata alla madre Shyamala (morta nel 2009) e alla sorella Maya, che ha intrapreso la carriera di attivista politica ed è diventata un’assistente di Hillary Clinton. Nel 2013, in un blind date, Kamala Harris ha conosciuto l’avvocato ebreo newyorchese Doug Emhoff, con il quale si è sposata l’anno dopo poco prima di compiere 50 anni. Da allora è diventata anche la seconda mamma dei figli di primo matrimonio di Emhoff, Cole ed Ella, che la chiamano “Mamala”. La coppia si è spostata a vivere a Los Angeles, per lo stupore dei suoi fan di San Francisco che non amano gli Angelenos e ai quali ha fatto l’ulteriore sgarbo di cominciare a tifare per i Dodgers, la squadra di baseball di L.A. 

Il salto nella politica nazionale le ha dato la possibilità di confrontarsi finalmente con un po’ di repubblicani, dopo tutta una carriera chiusa nell’ecosistema democratico. Persino la sua campagna per il Senato nel 2017 fu una faccenda tutta “in casa” perché la sfidante, per la prima volta in California, era un’altra democratica. In Senato è stata considerata una dura, fu protagonista di audizioni roventi per la conferma dei giudici della Corte suprema scelti dal presidente Trump. Nel corso degli anni trascorsi tra Senato e Casa Bianca, ha iniziato a cavalcare in modo più netto e meno realista anche una serie di battaglie culturali, prime tra tutte quelle per i diritti Lgbtq e per l’aborto. 

I primi anni alla Casa Bianca con Biden sono stati difficili, con una delega all’immigrazione che l’ha vista girare per molti paesi dell’America latina senza però riuscire a trovare soluzioni convincenti all’assalto continuo dei migranti al confine con il Messico. Non ha aiutato la situazione conflittuale nel suo staff, dove in molti si sono licenziati e hanno cominciato a scrivere libri e dare interviste che hanno messo in cattiva luce la Harris. 

Le cose però sono un po’ cambiate nell’ultimo anno e mezzo, con una sostanziale “ricostruzione” dell’immagine di Kamala Harris da parte del team della Casa Bianca e una maggiore esposizione sui temi di politica internazionale. Lo scorso febbraio Biden l’ha mandata a rappresentare gli Stati Uniti alla conferenza sulla sicurezza a Monaco, nella quale ha lanciato un forte appello al rafforzamento della Nato e a una risposta atlantica e unitaria alle minacce di Vladimir Putin. E’ curioso ricordare chi è stato invece l’inviato di Trump a quella conferenza, a fare da contraltare alla Harris e a promuovere il verbo Maga : il senatore J.D. Vance.
 
 

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