In America

L'unità in un giorno per Kamala Harris

Paola Peduzzi

La vicepresidente raccoglie endorsement importanti tra i democratici ed elogia il mandato “impareggiabile” di Biden. I fondi sbloccati, le domande sospese e la vitalità di un cocco (con colonna sonora)

Il frutto è il cocco, il colore è il verde acido: sono i simboli utilizzati dai sostenitori di Kamala Harris, la vicepresidente americana che è stata indicata come candidata alle elezioni di novembre da Joe Biden, il presidente che ha deciso dopo insistenti pressioni del suo Partito democratico di non tentare la propria rielezione. Il cocco (con anche la palma) viene da una citazione fatta da Harris l’anno scorso, una frase che le diceva sua madre quando era ragazza: “Cos’è che non capite voi giovani, pensate di essere caduti giù da un palma da cocco?” – intendeva dire che tutti fanno parte di una comunità e di un contesto. E’ già da allora che il cocco simboleggia Harris, nelle ultime ore è ovunque, assieme al verde acido della copertina del disco  di Charli XCX, “Brat”, che è diventato un inno estivo  e le cui canzoni accompagnano molti video sui social in cui Harris balla, canta, ride (ride sempre molto, Donald Trump ha già detto che è la dimostrazione che Harris è pazza). Charli XCX ha scritto su X che Harris è Brat, e così la moda, la “Brat summer”, il verde sono diventati un gioioso e sfacciato endorsement pop.    

I simboli  servono a respirare dopo la mestizia delle ultime settimane in cui si è parlato soltanto di malattie senili e di nonni smemorati, e la velocità con cui la campagna di  Harris se n’è appropriata mostra la volontà di costruire una nuova dinamica vitale e, se possibile, più ottimista. C’è poco tempo e c’è bisogno di tornare a parlare di Trump e del trumpismo e della visione del candidato repubblicano, invece che della crisi interna. I musi lunghi dentro al Partito democratico non si sono ancora distesi, ma anche se da quando è iniziata questa crisi – con la brutta performance di Biden al dibattito televisivo del 27 giugno assieme a Trump – si sono creati crepe e dissapori interni, il primo giorno di Kamala Harris candidata alla presidenza è stato scandito da una convergenza attorno alla sua campagna piuttosto rapida e completa: molti esponenti democratici hanno detto che la sosterranno, compresi i più attesi, come i leader di Camera e Senato e l’ex speaker Nancy Pelosi. 

Sono stati raccolti 45 milioni di dollari nelle prime ore di questa ripartenza e alla sua prima uscita elettorale nel Delaware bideniano, Harris ha esordito dicendo che il lavoro fatto da Biden è “impareggiabile” e che anche “il cuore grande” di Biden lo è. Il sollievo delle ultime ore non deve creare eccessive illusioni: a meno di un mese dalla convention di Chicago, Harris non soltanto deve ottenere più sostegno possibile dal partito ma in particolare dai delegati che sono quelli che tecnicamente nominano il ticket (presidente e vicepresidente) elettorale. C’è un problema che va al di là degli aspetti tecnici ed è il fatto che i delegati sono i rappresentanti dei voti alle primarie dove nessun elettore naturalmente ha votato per Harris non essendo lei candidata. Sono i voti e i delegati di Biden, quindi Harris li deve convincere a sostenerla alla convention – per gli elettori invece non c’è niente che si può fare e quando si parla di deficit di rappresentatività si sottolinea proprio quest’aspetto (è un po’ il problema di tutto il sistema elettorale americano). Lo stesso vale in realtà anche per i fondi elettorali, ma tale questione sembra più risolvibile perché durante la fase di incertezza sulla decisione di Biden, molti donors avevano sospeso i loro contributi in attesa del passo indietro: ora possono ricominciare. Sullo sfondo resta poi la domanda originaria: Harris sapeva che lo stato di salute di Biden era così peggiorato e ha contribuito a mascherare il crollo? 

C’è poco tempo per rispondere a queste domande e anche per ricostruire una campagna elettorale credibile ed efficace. Il Partito democratico si è convinto che il suo candidato non era forte, l’ha spinto verso l’uscita – Biden non voleva, ma poi il peso della pressione e l’accusa di irresponsabilità hanno avuto il sopravvento – e ora si ritrova con un’altra candidata che non ha al momento grandi chance  di battere Donald Trump. I sondaggi sono impietosi, la popolarità di Harris è bassa, il suo mandato da vicepresidente non ha brillato per nulla, la sua nomina sembra un piano dell’élite che ignora la volontà popolare, i repubblicani si sono uniti attorno al loro Trump dopo il tentato omicidio del 13 luglio senza più le reticenze anche solo formali che c’erano prima. I trumpiani, e lo stesso ex presidente, hanno già iniziato ad attaccare Harris e i democratici – il premio dell’oscenità oggi va a Donald Jr, che ha spodestato dal trono pubblico la sorella Ivanka, e che ha pubblicato su X una schermata finta delle telefonate del presidente ucraino Volodymyr Zelensky a Biden in cui è in panico per la sua dipartita e per i fondi che potrebbero non arrivare più (a Kyiv, secondo le analisi e i racconti, sono più pronti a un eventuale ritorno di Trump degli europei sicuramente).

Ma secondo le ricostruzioni sui giornali americani, il calcolo trumpiano era che Biden non avrebbe fatto un passo indietro e che anzi questo cambiamento, come ha scritto Tim Alberta sull’Atlantic, sia esattamente quel che si temeva di più: la campagna elettorale di Trump si basava sulla fragilità di Biden (nel quartier generale c’è una scritta sulla fragilità del presidente che ora si può anche cancellare) e in qualche modo deve essere reinventata. Considerando le scelte passate dell’ex presidente, non ci si aspetta chissà quale trasformazione – gli slogan sono sempre gli stessi, partono dai brogli del 2020 e arrivano al mondo in guerra che Trump riporterà alla pace con un paio di telefonate – ed è per questo che lo spiraglio di un cambiamento può spaventare i  trumpiani. Harris ha la possibilità di restituire vitalità a una campagna finora mesta, per Trump questo momento è appena passato. 
 

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi