In medio oriente

L'arma dell'intelligence di Israele

Micol Flammini

Gli attacchi contro i leader di Hamas e il bombardamento contro gli houthi in Yemen. Lo stato ebraico vuole mostrare di poter arrivare ovunque e che le linee rosse sono inamovibili

La mattina del 12 luglio, aerei da guerra e droni israeliani erano già nei cieli di Khan Younis, nel sud della Striscia di Gaza,  da diverso tempo. L’aeronautica dello stato ebraico aveva lasciato attivi i suoi mezzi per circa un giorno e mezzo, nell’attesa che il leader di Hamas, Mohammed Deif, andasse a trovare il comandante della brigata Khan Younis, Rafah Salameh. E’ un modo di operare ameno, perché gli aerei si erano messi in posizione prima che a Gerusalemme l’operazione fosse stata approvata: di solito partono dopo il via libera,  aggiungendo un elemento di incertezza in più sull’esito di una missione. Questa volta, invece, nessuno voleva incertezze, lo stato ebraico aveva avuto l’informazione che Mohammed Deif, il terrorista  avvolto nella mitologia di una vita trascorsa a scampare ai tentativi di omicidio israeliani, una carriera  nelle viscere di Gaza, fra un tunnel e l’altro, sarebbe andato a incontrare Salameh, sarebbe uscito da sotto terra e non ci sarebbe stata altra occasione di eliminarlo a breve. Gli aerei sospesi sopra Gaza il 12 luglio erano ormai sicuri che Deif fosse nell’edificio, da Gerusalemme arrivò l’approvazione, l’edificio venne colpito. Nessuno ha confermato la morte di Deif, mentre quella di Salameh è stata accertata: durante l’attacco morirono anche decine di civili palestinesi.  Secondo Tsahal, l’esercito israeliano, Deif si trovava nell’edificio e  ci sono molte probabilità che sia morto. Per Hamas, darne conferma vorrebbe dire indebolirsi, ammettere che al tavolo dei colloqui per il cessate il fuoco e il rilascio degli ostaggi  a cui giovedì torneranno i negoziatori israeliani, il gruppo della Striscia arriva ferito. 


L’intelligence israeliana in queste settimane sta dando prova di efficienza, non sappiamo nulla sulla sorte di Deif, ma l’attacco al porto yemenita di Hodeidah è stato eseguito in modo tale che i nemici dello stato ebraico si rendano conto che Israele sa come colpire, non è vulnerabile e non conviene superare la sua soglia di sopportazione. Quando nelle prime ore di venerdì, un drone di fabbricazione iraniana  lanciato dagli houthi e modificato per percorrere un tragitto che dallo Yemen risalisse il Mar Rosso, entrasse nella penisola del Sinai per sorvolare il Mediterraneo ed entrare a Tel Aviv dalla costa, un piano per colpire lo Yemen esisteva già, ma non era mai stato attuato. L’attacco del drone che gli houthi hanno ribattezzato Yafa, dal nome di Tel Aviv in arabo, ha ucciso un civile che dormiva nel suo appartamento non distante dal lungomare della città, e il ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, ha spiegato che non esiste linea rossa in grado di stravolgere i comportamenti di Israele più netta  della morte di un suo cittadino. Prima del drone Yafa, gli houthi avevano lanciato più di duecento attacchi contro Israele, nessuno aveva ucciso, lo stato ebraico  aveva già pianificato un attacco doloroso contro i terroristi che governano parte dello Yemen, ma nulla lo aveva spinto ad agire. La morte di un cittadino ha cambiato tutto e in un’operazione straordinaria di caccia F-35 riforniti in volo, Tsahal è riuscito a raggiungere il porto di Hodeidah e colpire  una centrale elettrica e un deposito di petrolio e di gas, provocare un grande danno  un incendio impressionante: “L’incendio in Yemen si vede in tutto il medio oriente”, ha detto Gallant. Hodeidah è anche un simbolo, perché secondo l’intelligence israeliana, è dal porto che l’Iran fa passare le sue armi per rifornire gli houthi, compresi i droni e i missili che sono stati lanciati dal 7 ottobre contro lo stato ebraico e contro le imbarcazioni civili dei paesi occidentali che transitano per il Mar Rosso. Israele ha colpito il porto, dicendo agli houthi e all’Iran che sa come si muovono gli scambi e se è stato in grado di colpire Hodeidah, può arrivare anche altrove: infatti  l’attacco contro il gruppo yemenita è stato ribattezzato “operazione Braccio esteso”. 


Lo stato ebraico sta cercando di rimettere al centro della sua dottrina la deterrenza che ha perduto dopo il 7 ottobre, quando ha mostrato  che le agenzie di intelligence più efficienti del mondo non erano state in grado di prevedere l’attacco di Hamas e l’esercito  non era stato in grado di respingere in modo tempestivo i commando di terroristi che per quasi ventiquattro ore avevano preso possesso di alcune comunità del sud di Israele, uccidendo, bruciando, torturando e rapendo. Sono ancora più di centodieci gli israeliani in ostaggio nella Striscia, ieri Tsahal ha annunciato la morte di due di loro: Alex Dancyg e Yagev Buchshtab, il primo aveva 75 anni, il secondo 35, sono stati rapiti dai kibbutz Nir Oz e Nirim, sono morti a Khan Younis. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)