l'incontro con bibi

I sei mesi di Biden per risolvere il conflitto tra Israele e Hamas

Micol Flammini

Non è più candidato, ma è ancora presidente, le pressioni dall'ala più a sinistra dei dem lo interessano meno e adesso può concentrarsi su un accordo per liberare gli ostaggi, il cessate il fuoco e un piano per il dopoguerra. Netanyahu al Congresso e gli incontri segreti ad Abu Dhabi 

Il presidente americano Joe Biden sta uscendo dal suo ritiro, si sta riprendendo dal Covid e dalle pressioni forsennate che si sono mosse attorno al suo ritiro dalla corsa elettorale. Non ha più impegni da candidato, ma ne ha ancora molti da presidente e in cima alle sue priorità ha messo la liberazione degli ostaggi israeliani che sono prigionieri di Hamas da duecentonovantadue giorni e il cessate il fuoco nella Striscia di Gaza. Biden avrebbe dovuto incontrare il premier israeliano Benjamin Netanyahu già ieri, ma la convalescenza  ha costretto a rimandare l’impegno a giovedì, la visita si terrà alla Casa Bianca. Più vago è  l’appuntamento tra Netanyahu e la vicepresidente,  nonché candidata alla Casa Bianca. 

 

 Kamala Harris  non è un volto del sostegno a Israele quanto Biden, ma difficilmente ha intenzione di distanziarsi dalla linea tenuta finora dall’Amministrazione di cui fa parte.  Donald Trump ha scritto sulla sua piattaforma Truth che incontrerà   Netanyahu oggi nella sua residenza a Mar-a-Lago, ma alcune fonti israeliane hanno detto al sito  Axios che i due si vedranno venerdì: la passione di Trump per Bibi si è spenta nel 2020, quando il premier si congratulò con Biden per la vittoria alle elezioni che l’ex presidente americano definisce ancora oggi “rubate”.  Il fuggi-fuggi da Netanyahu, che oggi parlerà al Congresso,  non viene letto dalla stampa israeliana come un segno della stanchezza americana nei confronti di Israele, piuttosto come il segnale di un grado di intolleranza nei confronti del premier  che abbraccia tutto lo spettro della politica americana. Alcune settimane fa, Bibi aveva pubblicato un video in cui accusava gli Stati Uniti e l’Amministrazione Biden di aver bloccato alcune consegne di armi,  e non era vero. Biden e i suoi hanno chiarito che le consegne non erano mai state interrotte e avevano preferito non commentare il video del premier come il solito tentativo di utilizzare la politica estera – che in Israele è esistenziale – come filone propagandistico per dimostrarsi l’unico leader in grado di guidare la  guerra, dare al suo mandato un valore di vita o di morte per il paese e soprattutto tenere buoni i partiti di estrema destra che non riconoscono l’aiuto americano, accusano Biden di essere prigioniero dell’estrema sinistra. Invece Biden non ha intenzione di mollare Israele, nei sei mesi che gli sono rimasti alla Casa Bianca vuole che la guerra arrivi a un punto e soprattutto che gli ostaggi vengano liberati: l’accordo tra Israele e Hamas deve essere parte della sua eredità. 


Per le vie di Tel Aviv un gruppo di artisti di strada, un mese dopo il 7 ottobre, disegnò su un muro il presidente americano vestito da Capitan America con uno scudo con la stella di David. Per molti israeliani Biden è l’esempio di una leadership che manca in Israele e per quanto alcuni politici israeliani del partito del premier, il Likud, si siano lasciati sfuggire commenti speranzosi su una possibile vittoria di Trump, fra gli israeliani il bilancio su Biden è positivo, fatto di gratitudine nei confronti di un presidente che per lo stato ebraico ha fatto molto, anche rischiando di mettere in crisi la sua rielezione, quando era ancora candidato per un secondo mandato alla Casa Bianca. Ma Biden ora non deve più curarsi della parte più a sinistra dei democratici che lo hanno contestato per il sostegno allo stato ebraico, gli hanno dato del genocida e fischiato durante i comizi, le sue scelte sono meno vincolate dalla campagna elettorale: il presidente può fare pressione per un accordo, supportare lo stato ebraico, lavorare a un piano per il dopoguerra che non implichi la sopravvivenza di Hamas nella Striscia. 


I piani per il dopoguerra a Gaza sono materia di dibattito tra israeliani e americani  da quando Gerusalemme ha deciso di rispondere all’attacco del 7 ottobre e al di là delle tensioni esposte all’esterno, il lavorio è sempre stato intenso. La scorsa settimana c’è stata una riunione segreta ad Abu Dhabi, in cui israeliani, americani ed emiratini hanno discusso di come governare Gaza quando la guerra sarà finita. Netanyahu vorrebbe coinvolgere gli Emirati in un’opera di “deradicalizzazione” della Striscia, ma il punto di accordo è stato sulla necessità di trovare una figura indipendente dell’Autorità nazionale palestinese, non legata al partito Fatah, che ieri ha stretto una tanto ambigua quanto vuota dichiarazione di riconciliazione con Hamas durante un incontro a Pechino. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)