Il fattore Indo-Pacifico nella costruzione di Kamala Harris

Giulia Pompili

La vicepresidente, silenziosamente, in questi anni ha contribuito a costruire e rinsaldare per Biden le alleanze asiatiche contro la Cina. E ora cerca consensi tra gli asiatici americani

Poco più di un anno e mezzo fa, quando era ancora considerata a Washington e non solo una vicepresidente poco incisiva e in ombra, Kamala Harris divenne la funzionaria dell’Amministrazione americana  più alta in grado a visitare Palawan, la remota isola delle Filippine nota per le sue spiagge e anche per la vicinanza con le isole Spratly, una delle aree più tese del Mar cinese meridionale. Lontana dal caos delle politiche migratorie che le aveva affidato il presidente Joe Biden, quello fu il momento più importante della costruzione di un profilo anche diplomatico di Harris, distante  da Washington ma in realtà molto, molto strategico per l’Amministrazione.

 

La Repubblica popolare cinese, sempre più assertiva e autoritaria, rivendica come parte del proprio territorio quasi tutto il Mar cinese meridionale, e la visita di Harris a novembre del 2022 ebbe un significato strategico gigantesco per la politica dell’Indo-Pacifico e per la protezione dello stato di diritto internazionale, a una settimana soltanto di distanza dallo storico incontro “del disgelo” al G20 di Bali fra Biden e il leader cinese Xi Jinping. Il ruolo di Harris era quello di rassicurare gli alleati, costruire nuove partnership con i paesi dell’Indo-Pacifico mentre Biden tentava la via del dialogo con Xi. A settembre dello scorso anno, la vicepresidente ha partecipato anche al summit dell’Asean di Giacarta (dove c’erano anche il premier cinese Li Qiang e il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov) e in quell’occasione Jake Sullivan, consigliere per la Sicurezza nazionale di Biden, aveva detto all’Ap: “Molti dei nostri migliori successi nella regione sono stati possibili grazie alla sua diplomazia”. Un riconoscimento non trascurabile: “Nella nostra Amministrazione, è stata una forte sostenitrice dell’aumento del nostro impegno nel sud-est asiatico, e ha fatto decine di voli in aereo per dimostrarlo, riconoscendo che il nostro lavoro lì è fondamentale per la nostra sicurezza e la nostra crescita economica”. In un periodo in cui l’America sembrava lontanissima, sostituita sempre di più dalle lusinghe (economiche) della Cina, se l’Amministrazione Biden è riuscita a rinsaldare le alleanze dell’Indo-Pacifico – pure con alleati tradizionali come Giappone, Corea del sud, Australia e Nuova Zelanda – è anche grazie a Harris. 


L’attenzione di Kamala Harris per le questioni asiatiche ha a che fare naturalmente con le sue origini, e sua madre, la specialista del cancro al seno Shyamala Gopalan. Nei giorni scorsi a Thulasendrapuram, il villaggio nello stato meridionale dell’India Tamil Nadu dove un tempo viveva il nonno materno di Harris, è stata istallata una gigantografia della vicepresidente e nel tempio indù locale dedicato a Dharmasastha, la dea indù della verità e della rettitudine, si prega per la sua elezione alla presidenza degli Stati Uniti come quattro anni fa. E poi c’è il tema del voto degli asiatici-americani: sabato scorso Harris ha tenuto il discorso di apertura alla Asian and Pacific Islander American Vote (APIAVote) di Philadelphia, associazione tra le più importanti della comunità, in un momento critico, perché secondo l’Asian American Voter Survey del 2024 il 46 per cento degli elettori asiatici americani ha dichiarato che voterà per Biden, un dato in calo rispetto al 54 per cento del 2020. Ma secondo alcuni media locali, i partecipanti all’evento non sono stati del tutto soddisfatti dal discorso di Harris, che  si è concentrata più su Trump che sulle proposte politiche.
Quattro anni fa, ai tempi della campagna elettorale per l’elezione a vicepresidente di Joe Biden, nella comunità di asiatici americani si parlava soprattutto di una cosa: Kamala Harris era la prima candidata non di origini cinesi ad avere un nome cinese d’elezione.

 

L’aveva scelto lei stessa – due caratteri che singolarmente significano “di successo” e “di bellezza” – proprio all’inizio della sua carriera a San Francisco, quando voleva ottenere il posto da procuratore distrettuale. La scelta di un nome in caratteri cinesi la poteva aiutare: spesso i nomi vengono semplicemente traslitterati, anche in modi diversi, e non c’è molta identificazione quando si tratta di una pura traduzione con suoni simili. Il South China Morning Post aveva scoperto che ad aiutare Harris nella scelta del suo nome cinese era stata la sua amica di lunga data Julie D. Soo, avvocata californiana: un buon nome l’avrebbe aiutata a  ottenere un po’ di copertura sui media cinesi, ed evitato le frequenti traslitterazioni con doppi significati scivolosi (Obama era tradotto spesso come ObaMao, Trump in cinese è Te Lang Pu, che può essere “straordinario, brillante e popolare” ma che può anche significare “insolito, rumoroso e ordinario”).

  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.