estate con ester
Kamala Harris e l'Arancione che è sempre lì. Ora bisogna scegliere come perdere
Con il "We did it Joe", la vicepresidente degli Stati Uniti aveva cominciato bene. Poi c'è stato il suo auto-oscuramento progressivo, la sua sparizione involontaria. E ora che il suo è l'unico nome sul tavolo per le prossime elezioni, si cerca di recuperare. Articolo scaramantico
Aveva cominciato bene, io almeno ci avevo creduto. Pareva la sorella di Obama, Kamala Harris. Sorriso pieno di denti, bella, americanissima, capace. Nel primo poi diventato unico video virale della vice si vedeva in tuta in un parco, quindi sportiva, quindi piena di salute, mentre faceva ginnastica. Telefonava correndo. Dall’altra parte del telefono c’era Joe, il nuovo presidente. Contenta e sicura come Barack, tanto che tutti avevamo pensato che era la successione naturale al Kennedy del 2008, e tutto sarebbe andato bene, Trump era solo un biondo ricordo lontano. We did it, Joe. Ce l’abbiamo fatta, Joe. E ce l’avevamo fatta pure noi: l’indecente personaggio era uscito dalla storia. Pure malamente, considerati gli attentati al Campidoglio.
Era tutta una famiglia di superstar, alla vicepresidenza. C’era il marito, Doug, avvocato, faccia simpatica, e la figlia di lui. Ella Emhoff. I fotografi di moda all’insediamento erano tutti suoi: stupenda ragazzina-nuovo-millennio eccentrica, artista e vestita della meglio sartoria italiana e con uno stile da fotomodella. Poco dopo infatti è diventata modella. C’era coolness a quintali, intorno al perimetro Kamala. Luce riflessa dappertutto.
E chi lo vedeva Joe Biden, poteva pure andarsene in pensione, non dovevamo preoccuparci più. Non era lui ad aver vinto, era Trump che aveva perso, bastava. C’era Kamala in pectore: ottimo punteggio di fighettismo intelligente, concreto, tutto quello che serve per governare dal retro. È competente, svelta, energica. In più di questi tempi qualcuno che viene benissimo in foto serve sempre – ci dicemmo.
Poi sapeva parlare, citava John Lewis “Democracy is not a state. It is an act”. E giurò che avrebbe pensato alle cose importanti. Risolvi prima i problemi che danno il nervoso: “Non cerco grandi ristrutturazioni. Devo occuparmi dei problemi che non fanno dormire le persone”.
E poi? E poi il lungo film presidenziale di Kamala è diventato cortometraggio. Una sparizione involontaria e sistematica, un auto-oscuramento progressivo, fino ad arrivare al Kamala chi? Ora che il potere di scelta s’è fatto mancanza di alternative, e quindi c’è un solo nome possibile, ed è il suo, si cerca di recuperarla dal fondale.
La prima donna! La prima nera! – ma sono tutte ovazioni vecchie dieci anni, abbiamo già avuto Hillary Clinton e Barack Obama. Su Instagram hanno cominciato ad assicurare che è Kamala la regina dell’estate, l’hanno messa in sfondo verde brat su Diet Prada, è tutto un fiorire di ma sì, non è detto che non vinca, ce la farà, Trump la teme, è una donna giovane e puntuta. E invece il fondotinta arancione è ancora lì, sopravvissuto a una sparatoria e il sopravvissuto vale doppio, si sa. Non ha speranze, Kamala. Non si può costringere nessuno a piacere a nessuno, queste le regole del mondo.
Come l’amore. Serve un minimo di qualcosa per iniziare. E se il minimo manca? Si fa senza, ma non si vince. Qui bisogna scegliere come perdere, e la domanda è: quando si è certi della sconfitta, uno vale uno? O perdere un po’ meno serve? Si potrebbe perdere meglio, in America? (Articolo scaramantico).
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